Menu Serie ASerie BSerie CCalcio EsteroFormazioniCalendari
Eventi LiveCalciomercato H24MobileNetworkRedazioneContatti
Canali Serie A atalantabolognacagliariempolifiorentinafrosinonegenoahellas veronainterjuventuslazioleccemilanmonzanapoliromasalernitanasassuolotorinoudinese
Canali altre squadre ascoliavellinobaribeneventobresciacasertanacesenalatinalivornonocerinapalermoparmaperugiapescarapordenonepotenzaregginasampdoriaternanaturrisvenezia
Altri canali serie bserie cchampions leaguefantacalcionazionalipodcaststatistichestazione di sosta

Giuffrida: "Prima di andare al Real, Hernandez vicino all'Italia"

Giuffrida: "Prima di andare al Real, Hernandez vicino all'Italia"TUTTO mercato WEB
© foto di Image Sport
giovedì 25 dicembre 2014, 15:442014
di Chiara Biondini
fonte intervista di Marco Conterio per Calcio2000 - In edicola trovi il nuovo numero 205
Intervista a Giovanni Giuffrida del numero 204 di Calcio2000

Da Sacchi a Hemingway, dal chiringuito a Formentera a Pochettino al Tottenham: storia di un malato di pallone.

C'è del profondo romanticismo, nell'amore malato di Gabriele Giuffrida per il calcio. Apre l'agenda e sorride. La figurina di Pep Guardiola in ultima pagina. Perché il football, in senso lato, è un rock ragionato e studiato, ma pure istinto e arte. Ama Roberto Baggio, che è la prima pennellata su una tela vergine, venera Arrigo Sacchi, che in confronto è il più scientifico dei matematici. "Sono un ragazzo normale". La storia parte così. Ma ha radici ben più profonde. "Mio padre ed i miei nonni avevano gallerie d'arte come La Barcaccia e La Gradiva a Firenze, ma anche a Roma e Forte dei Marmi. Mio nonno, per esempio, ha lanciato De Chirico". C'è poco di surrealismo, nelle parole di Giuffrida, l'uomo con la valigia con dentro Fiesta di Hemingway e tanta voglia di conoscere il mondo. "Faccio un lavoro bellissimo: viaggiare tanto ti arricchisce; ho visto posti incredibili e questo per me è ancor più sorprendente".

Perché?
"Sono un abitudinario. Quasi un sedentario. Però, così, mi godo Roma, la mia Roma, come da turista, due-tre giorni alla settimana. Ed è bella, ancor più bella".

Suona davvero romantico. Artistico.
"Il mio gusto per l'estetica ha prevalso su tutto il resto, con le conseguenze del caso. Anche nel calcio: guardo alla tecnica, alla cura del gesto, che ha spesso la prevalenza sulla parte pratica".

Eppure adora Sacchi, l'inventore di un calcio quasi scientifico.
"Ero innamorato del suo metodo e modulo, ma anche di Baggio, come ora di Guardiola e pure di Mourinho. Sono facce di una stessa medaglia, materia di studio per un malato di pallone come me. Pensi che dal 1986 ho registrato tutte le gare dei Mondiali. Dalla prima all'ultima".

Non è bello ciò che è bello.
"È un concetto relativo. La bellezza di Sacchi è diversa da quella di Guardiola. Io ascolto tutto e parlo soprattutto con chi ne sa più di me. Sono un egoista, in questo senso, perché tendo ad immagazzinare tutto. Anche nel mio lavoro, ho come riferimento i più bravi. Non lo dico per piaggeria: Branchini, Bozzo, Berti, Tinti, sono competitor da cui imparare".

È giovane ma ha già macinato chilometri, col pallone nella valigia.
"Ed il saldo, nel calcio, non è mai globalmente positivo. Penso a quest'ultima estate...".

Ci tuffiamo subito su Torres.
"Se vuole da Hernandez".

Chicharito?
"Già. Da Javier Hernandez, che era al Manchester United. Esco dalla sede del Milan, felice per aver chiuso l'operazione Torres, sulla quale torniamo tra poco. Trovo sul cellulare un messaggio del procuratore, con cui stavo per chiudere l'affare. Mi disse che non si sarebbe fatto, perché si era inserito il Real Madrid".

Scusi, ma qui scappa la notizia.
"Non ci allarghiamo: Javier Hernandez, a fine agosto, era molto vicino ad una società italiana. Ma non dirò quale...".

Un'estate ricca, però, con una grande soddisfazione: Fernando Torres al Milan.
"Una passione adolescenziale. Quando uno è forte, è forte, e Fernando lo è ancora, come allora. Sono amico dell'agente di Torres, Margarita Garay, con cui ho condotto altre operazioni in passato in Spagna. Volevo fare Torres in Italia, da tempo, ma ogni volta c'era un motivo per non chiudere o per non riuscirci. Stavolta ce l'abbiamo fatta, era il momento giusto. Il Milan l'ha scelto e lui ha scelto il Milan".

Certo che dall'amare Sacchi al chiudere Torres-Milan, il passo è lungo.
"Riparto da lontano, allora. Faccio lo scientifico, poi studio legge, sempre vivendo a Roma. Nel frattempo mi divertivo a vedere le partite, ero malato di calcio a tal punto che con mio fratello Valerio e con mio padre, colui che ci ha trasmesso la passione, riuscivamo a vedere tutta la A grazie alle antenne a basse frequenze. Un amore che è sempre andato in crescendo, esploso ad Italia '90".

Il Mondiale delle notti magiche.
"Ha cambiato le persone, le ho viste felici. C'era un'Italia diversa, erano le notti del 'prima che finisse tutto'. O che iniziasse a finire, almeno. Però ho ricordi belli, indelebili. Di un'atmosfera, appunto, magica. E poi c'erano Baggio e Schillaci...".

Poi, da passione, il calcio diventa lavoro. Ed in tutte le storie, c'è qualcuno o qualcosa che ti aiuta a tracciare la via.
"Quando racconti la tua storia, vorresti sempre dire qualcosa di epico, perché vorresti fosse interessante per qualcuno. Io però non ho nulla di epico da raccontare".

È il bello e lo straordinario della normalità.
"Lo ripeto, mi ritengo un ragazzo normale. Sulla strada incontrai Luciano Marangon. Fu lui a presentarmi Diego Maradona jr e Zenga jr, i miei primi giocatori, che portai al Genoa. Lo conobbi a Formentera in un chiringuito sulla spiaggia. Lui conosceva il mondo del pallone, da ex calciatore, le dinamiche televisive. Io, col tempo, ero entrato in contatto con molti calciatori, che erano miei coetanei, se non più grandi di me. Marangon non seguiva il calcio e capii che quella era una via propedeutica per il raggiungimento del mio obiettivo. Mi occupavo, tra le altre, della gestione delle ospitate dei calciatori in televisione: Ronaldo il Fenomeno a 'C'è Posta per Te'. Kakà sempre a Mediaset, poi Adriano, anche Figo. Tutti i top all'epoca".

Il calendario scorre. 2006. Odissea nel calcio italiano.
"Fu il punto di rottura. Come quando cade un muro, come, fatte le debite e dovute proporzioni, per la caduta del Comunismo in Russia. Ci fu un nuovo inizio, un big bang, si aprirono possibilità per molti. Ci fu anche grande entusiasmo e, con quello, anche una buona dose di fortuna. Che credo sia un'attitudine".

Via alle prime operazioni di mercato.
"Thiago Gosling al Genoa, Maximiliano Pellegrino all'Atalanta, Artur al Cesena e tanti altri che non hanno cambiato la storia del calcio italiano, magari, ma sicuramente la mia. Anche per questo inizio a seguire con grande attenzione il Sudamerica, dove avevo contatti con Brasile ed Argentina".

Tanto che, a proposito di luoghi, volti e nomi che cambiano una vita, passiamo a Rodrigo Palacio.
"Chiamai un amico in Argentina che ci organizzò un meeting. 'Vengo se incontro Rodrigo', gli dissi e ci mise in contatto. Sapevo che era malato di un videogioco per la Playstation in particolare, PES, che in Argentina usciva successivamente. Glielo portai, apprezzò e da lì nacque il bel rapporto che ci lega anche oggi. E grazie a lui ho conosciuto Roberto De Pietri, che per me è come un fratello maggiore".

Palacio, dal Boca, non arrivò però subito in Italia.
"Ci provammo con Juventus e Lazio. Un giorno, con Fabrizio Preziosi, figlio del presidente del Genoa, andai in Argentina: Fabrizio è uno che vive di prime impressioni. Si piacquero ed il matrimonio fu subitaneo: il Genoa fu abile nel battere club del calibro di Atletico Madrid e Valencia, per un giocatore per il quale il Boca aveva detto di no a quattordici milioni dal Barcellona nella stagione precedente".

L'Argentina è un tango che ritma nel sangue. Che non se ne va più. Così diventa il suo leitmotiv.
"Se parliamo di argentini, parliamo anche di Hernan Crespo. Con l'Avvocato Gianluca Chibbaro, che gestiva l'immagine, abbiamo iniziato ai tempi a collaborare: si trovò bene e ci chiese lui di seguirlo. È la soddisfazione più bella, quando accade. È un collezionista di attimi giusti, Hernan, una persona a cui sono molto legato. Per me è come un 'milonguero', è come un ballerino di tango con le scarpette da calcio che trasmette emozioni dentro e fuori dal campo".

Argentina, ovvero Mauro Boselli.
"È una storia bella, quella di Mauro".

Fuori fa un gran caldo. Stiamo qui, comodi, e sentiamo con calma.
"Lo osservavo con attenzione quando era al Boca Juniors, poi andò al Wigan, in Inghilterra, dove era in difficoltà. Roberto Martinez, ora manager dell'Everton, mi disse che lo volevano in tanti. Facemmo un affare col Genoa: sei mesi, in prestito, a cifre alte. E lì arriva la parte bella della storia, con Enrico Preziosi".
Prego.
"Tutto fatto, tutti d'accordo, al momento delle visite lo staff sanitario trova però uno stiramento di quattordici millimetri. Preziosi, alle una di notte, chiamò Mauro per dirgli 'ti aspetto, ti aspettiamo. Questa è la tua famiglia'. Mi spiace per la Sampdoria, fece un gol pesantissimo in un derby storico, ma ha scritto in poco tempo una pagina gloriosa di un club importante come il Genoa. Va come credo: dal bene, nasce il meglio. Sempre".

Artista e filosofo. È così che ha convinto Leandro Castan?
"Bravissimo ragazzo, gran difensore, Leandro. Lo conobbi in Brasile, dopo aver incontrato il padre. Ci lavorammo per tutto l'inverno e poi lo portammo in Italia, alla Roma, che cercava uno con le sue caratteristiche e che già lo conosceva bene".

Estate 2014, salto temporale non male. Però la trattativa per il rinnovo è stata una bella sudata...
"C'è stato anche un momento 'nevrotico', di stallo, visto che c'era anche il caso Benatia. Però abbiamo superato ogni momento di tensione ed è finita in modo bello".

A questo punto ci dice come...
"Feci un video, dal mio cellulare, a Leandro dove diceva con un sorriso contagioso 'Direttore, lo sa, io voglio firmare il nuovo contratto'. Alle 7 la mattina andammo in sede e facemmo tutto prima della partenza degli Stati Uniti. È stato il passo giusto per stemperare gli animi".

Se le dico London Calling?
"Dico Mauricio Pochettino. Che soddisfazione portarlo al Tottenham, e pure che prestigio. Un rapporto nato ai tempi dell'Espanyol, lo conobbi grazie al mio amico Ramon Planes, allora direttore sportivo del club catalano. È sempre stato bello vedere le squadre di Pochettino giocare e per me è stata una grande soddisfazione: un italiano che porta un tecnico argentino dal Southampton ad una squadra di Londra così importante come il Tottenham. C'erano agenzie importantissime in corsa, la soddisfazione è doppia, perché è anche stata la scelta giusta per lui. Mauricio è un perfezionista, un creativo, un lavoratore infaticabile, un soggetto unico nel calcio di oggi".

Ci racconta anche le sue 'stalle', ovvero i colpi non messi a segno?
"Vede, per me coi calciatori è come con la 'ragazza giusta'. O almeno presunta. Sei stordito dall'infatuazione calcistica: prendi la sbandata e trovi sempre la ragione per pensare che sia la persona giusta per te. Ed a volte può capitare di prendere decisioni sbagliate".

E nel caso del calciatore?
"Nilmar, l'attaccante brasiliano. Ci sono state occasioni per portarlo in Italia, ma non è mai andata, per un motivo o per un altro".

Nelle ultime sessioni, tra gli altri, ha portato in Italia giovani top come Sanabria e Jedvaj. C'è però una storia b-side da raccontare: quella di Thiago Cionek.
"Era in Terza Divisione in Brasile. Extracomunitario, fece un provino con l'Atalanta che però non poteva prenderlo. Scoprimmo che aveva antenati in Polonia, così chiamai Boniek. Cionek fece tre anni al Jagellonia, poi è arrivato in Italia con Padova prima e Modena ora. Fino all'esordio in Nazionale, contro la Germania, che è stata una vera emozione per tutti".

Il Sudamerica l'ha segnata, profondamente. Anche il Paraguay.
"Con un nome, quello di Nelson Valdez: abbiamo cambiato sei squadre in quattro anni e dovunque è andato, è stato sempre il più amato. Ha sempre fatto benissimo ma... Ovunque tranne che in Italia".

Lo dice con il sorriso, Giuffrida.
"Sono i casi e gli incroci della vita. Ma io sorrido spesso, mi ritengo fortunato. Sono fortunato. Viaggio, conosco persone nuove, amo stare tra la gente, che sia per un aperitivo sulla spiaggia a Formentera o nel nostro ristorante ad Ibiza".

Il vostro... Ristorante?
"Si chiama Piccola Cucina: è ad Ibiza, ne abbiamo anche uno a Miami. Non parlo di calcio tutto il giorno, ma cerco tutto quel che produca qualcosa, in ogni ambito. E... Beh, il ristorante ad Ibiza è...".

'Figo'. Ci passa il termine?
"Sì, dai. Fico. Ci vengono tanti campioni e protagonisti del calcio, per me è un vero piacere, nonché una passione".

Ma come nasce l'idea?
"Da mio fratello Valerio. Era in vacanza ad Ibiza e vide un locale chiamato Sushi Point. Così li contattammo per avere dritte su un locale simile da aprire e... Comprammo quello".

Scusi, ma sa cucinare?
"Io? No, assolutamente".

Dorme bene?
"Sì ma..."

Non si preoccupi. È per sapere cosa sogna.
"Un giorno, forse, fare il direttore sportivo. Mi piacerebbe molto, anche se non so come gestirei l'aspetto negoziale e dei rapporti, se 'inquinato' dall'adrenalina dei novanta minuti della tua squadra".

© foto di Image Sport