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Carlo Nesti: "Heysel: l'Hiroshima del pallone, 30 anni dopo"

Carlo Nesti: "Heysel: l'Hiroshima del pallone, 30 anni dopo"TUTTO mercato WEB
venerdì 29 maggio 2015, 15:522015
di Chiara Biondini
fonte Carlo Nesti

Carlo Nesti: "Heysel: l'Hiroshima del pallone, 30 anni dopo"

Nella mia carriera ho avuto la fortuna di lavorare per la stampa scritta e per la stampa parlata, sia radio che televisione. E' mancato soltanto un tipo di "gavetta", e cioè quello della "cronaca", avendo cominciato subito con lo sport. Ma devo ammettere che avrei incontrato difficoltà nell'adeguarmi.

Giudicatemi come volete: sensibilità, in chiave positiva? Debolezza, in chiave negativa? Forse perché allevato al riparo da tanti pericoli, o perché privo dell'esperienza del servizio militare, non avrei mai avuto il "pelo" idoneo per la cronaca nera. Difficile, per me, restare impassibile davanti a delitti e cadaveri.

Per tanto tempo, almeno fino ai 30 anni, esattamente sino al 29 maggio 1985, sono riuscito a rigirare fra le mani il pallone, e, in generale, il mondo del calcio, come un giocattolo. Anzi: come "il Giocattolo", con la "G" maiuscola, una affascinante e spassosa appendice dell'infanzia.

Dentro un recinto ideale, avevo collocato figurine, prati, porte, tacchetti, stadi, spogliatoi, penne, taccuini, rotative, microfoni, telefoni, transistor... le campane della domenica, le code ai botteghini, le attese sulle gradinate, i fischi di inizio contemporanei, e le voci senza volto di "Tutto il calcio".

Guai a modificare l'equilibrio! Un romanzo popolare che suggeriva il quesito "ma come saranno riusciti, nei secoli scorsi, a fare a meno del calcio?". Era una domanda carica di romanticismo e di superficialità, perché più il calcio conquistava le folle, e più era destinato a calarsi nella società.

Avevo già assistito a 3 finali europee della Juventus: 1973 a Belgrado contro l'Ajax, 1983 ad Atene contro l'Amburgo, e 1984 a Basilea contro il Porto. Il "colore" extra-sportivo degli eventi era contare di quanto aumentava l'"esodo" straripante dei tifosi bianconeri: 20.000, 30.000, 40.000... Fantastico!

Ma mercoledì 29 maggio 1985, fin dal mattino, avevamo capito che questa volta, a Bruxelles, non c'erano soltanto i sostenitori bianconeri, ma anche quelli della squadra avversaria: il Liverpool. Italiani e inglesi avevano invaso la capitale belga, vergognosamente troppo passiva per capire cosa stava succedendo.

Nell'ora di pranzo, io, inviato Rai per la radio e per il TG1, mi trasferii sulla Grand Place, con l'operatore Gianfranco Isoardi. Assistemmo allo spostamento di massa di migliaia di britannici ubriachi. Quando se ne andarono, il manto stradale era lastricato da un numero inverosimile di lattine vuote di birra.

Più tardi, allorché noi giornalisti arrivammo, in pullman, nei pressi del decrepito stadio Heysel, teatro della finale di Coppa dei Campioni, altro choc. Al nostro passaggio, centinaia di supporter inglesi si calavano i pantaloni, e ci sfidavano, mostrando i genitali. C'era, nell'aria, qualcosa di allarmante.

Nella testa mia e dei colleghi, comunque, il ragionamento era comune: "O.k.. Questi sono i famosi hooligans, il peggio del teppismo continentale, ma figuriamoci se le autorità belghe, nel paese del Parlamento europeo, non hanno preso le dovute contromisure! Calma e gesso: adesso ci godiamo la partita".

Curva Z: come mai quei tifosi della Juventus nello stesso settore dei tifosi del Liverpool? E come mai un cordone di pochi poliziotti? Neppure il tempo di riflettere un attimo, e, 2 ore prima dell'incontro, cominciarono le cariche degli inglesi contro i nostri connazionali. Famiglie, e non ultras, miti e terrorizzate.

Io ero al fianco di Enrico Ameri, per raccontare, via radio, la partita. Notai che la curva finiva in un punto in cui non era possibile, dalla tribuna stampa, scorgere se esistevano uscite di sicurezza. Vedevamo gli italiani indietreggiare, compressi uno sull'altro, sparendo in una zona d'ombra.

Non lo potevo ancora sapere, ma quella macabra zona d'ombra era lo spartiacque fra la vita e la morte, e anche fra il mio passato e il mio futuro, fra il calcio-fiaba e il calcio-strazio, fra l'incantesimo del fanciullo e la disillusione dell'adulto. Si immolarono 39 persone, calpestate e soffocate.

Per la prima, e unica volta, senza volerlo, mi trovai alle prese con un fatto di cronaca nera. Ma non uno qualsiasi, bensì l'Hiroshima del pallone, la "bomba atomica", nella storia del teppismo da stadio, che, quando esplode, cambia chiunque di noi. Era la fine del mondo, per chi, come me, sognava ancora a occhi aperti.

I tifosi, sfuggiti al massacro, si riversavano sul terreno di gioco per sopravvivere, picchiati, per giunta, dalla polizia belga. Chi poteva scavalcava le barriere, ed entrava in tribuna-stampa. Trovare i nostri microfoni era l'unico modo per far arrivare in Italia un messaggio: "Mamma, papà... sono vivo!".

Ora, a distanza di un quarto di secolo, mi viene in mente, ripensando a vittime e carnefici, una invocazione della Bibbia: "O Dio, non stare lontano: Dio mio, vieni presto ad aiutarmi. Siano confusi e annientati quanti mi accusano, siano coperti d'infamia e di vergogna quanti cercano la mia sventura" (Salmi 70, 12).

A coloro che spesso si chiedono perché un Dio buono possa tollerare certi massacri, domando di lasciare in pace, una volta per tutte, il Padreterno. Avrebbe potuto schiavizzarci, e, al contrario, ci ha lasciati liberi. Cosa c'entra Dio, se l'uomo, nella sua libertà, sceglie il male, invece del bene?

Nella strage dell'Heysel l'uomo "bestiale" ha aggredito l'uomo "innocente". Caino ha scelto la violenza, e ha ucciso Abele. Quando è l'uomo a colpire l'uomo, per favore, non scomodate Dio, che, alla fine, scatenerà l'ira su chi ha sbagliato, secondo i tempi della Sua Giustizia, diversi dai nostri.

(DAL LIBRO "IL MIO CIRCUITO SI CHIAMA PARADISO", EDIZIONI SAN PAOLO)