Menu Serie ASerie BSerie CCalcio EsteroFormazioniCalendari
Eventi LiveCalciomercato H24MobileNetworkRedazioneContatti
Canali Serie A atalantabolognacagliariempolifiorentinafrosinonegenoahellas veronainterjuventuslazioleccemilanmonzanapoliromasalernitanasassuolotorinoudinese
Canali altre squadre ascoliavellinobaribeneventobresciacasertanacesenalatinalivornonocerinapalermoparmaperugiapescarapordenonepotenzaregginasampdoriaternanaturrisvenezia
Altri canali serie bserie cchampions leaguefantacalcionazionalipodcaststatistichestazione di sosta

La top11 di tutti i tempi

La top11 di tutti i tempiTUTTO mercato WEB
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
venerdì 11 novembre 2011, 16:302011
di Andrea Losapio

Il calcio è un gioco che si pratica in undici contro undici. Questa è la prima regola del pallone, anche se negli anni sono apparse delle versioni modificate come il calcio a 7 o il calcetto, ma la tradizione vuole undici gladiatori su un campo a dare battaglia. Il numero undici è poi quello che chiude - anzi, chiudeva - i titolari. Un numero che in nazionale, spesso e volentieri, veniva preso dai grandi ma non grandissimi, quei calciatori che nella vita di tutti i giorni erano dei numeri dieci, scontratisi poi con altri grandi campioni e finendo per fare da loro spalla. Non vi annoierò con la storia della data, ma undici favole di altrettanti calciatori, top player veri e propri, che in onore dell'11 hanno spesso dato la propria carriera.

Undicesimo posto - In pochissimi se lo ricorderanno, ma è stato uno dei migliori giocatori europei nel corso degli anni ottanta. Nato a Lierse, è riuscito a conquistare la nazionale con la squadra della sua città, per poi rappresentarla per novantasei volte, diventandone recordman. Jan Ceulemans è un'icona per il calcio belga quasi quanto Jean Marie Pfaff (mostro sacro, portiere dei Diavoli Rossi). Indimenticabile il gol in tuffo contro la Spagna nel 1986, ai quarti di finale, che di fatto eliminò i latini dalla corsa al titolo. Poi arrivò l'Argentina di Maradona a porre fine ai sogni di gloria. Un argento agli europei del 1980 in Italia, lasciò la nazionale nel 1990 a seguito del gol di David Platt, al centodiciannovesimo degli ottavi di finale del mondiale. L'ingiusta parabola di un Capitan Coraggioso.

Decimo posto - Due anni alla Lazio, un quadriennio con la maglia della Juventus, a regalare sogni insieme a Platini, e poi Barcellona e Real. Michael Laudrup è certamente uno dei più grandi talenti scandinavi di tutti i tempi, pensando che proprio la federcalcio danese lo ha indicato come miglior giocatore dell'ultimo mezzo secolo. Dribble, finte e controfinte, passaggi filtranti, probabilmente la carriera di Laudrup ha un grosso neo. Più che grosso, enorme. Nel 1992, a causa di incomprensioni con l'allora commissario tecnico Richard Møller Nielsen, non partecipa alla fase finale dell'Europeo. La Danimarca parte da underdog, outsider, anche perché ripescata dopo l'estromissione della Jugoslavia a causa della guerra civile. Succede che, in un crescendo d'incredulità, la nazionale biancorossa vince l'Europeo anche grazie alle prestazioni di Brian Laudrup (il fratellino di Michael). Si rifarà con la Confederations Cup in Arabia del 1995, ma non è proprio la stessa cosa.

Nono posto - Impossibile non rappresentare l'Olanda del calcio totale nella nostra graduatoria. Il numero dieci di quella divisa arancione non era Johan Cruijff, com'era lecito aspettarsi (ma che sceglieva il quattordici), bensì René van de Kerkhof. Che lasciò la "mitica" undici al suo fratello gemello Willy van de Kerkhof, soprannominato Vacuum Cleaner, aspirapolvere, l'unico con Krol a giocare tutti i minuti del mondiale 1978 in Argentina. Un esponente di spicco di una delle squadre più forti di tutti i tempi, sicuramente una delle più innovative. Un vero e proprio rubapalloni, sempre nel cuore del gioco, con una visione incredibile. Nella sua carriera sette Eredivisie vinte col PSV, quattro KNVB Cup, una Coppa Uefa e una Coppa Campioni.

Ottavo posto - Quando i riflettori si accendono, le stelle scompaiono. Tutte, tranne Zbigniew Boniek, il Bello di Notte coniato dai giornalisti dietro soffiata - più o meno voluta - dall'Avvocato Gianni Agnelli dopo le grandi prestazioni nelle serate di coppa. Lo stava presentando a Henry Kissinger, non proprio uno qualunque. Con la casacca del Widzew Lodz elimina la Juventus nel 1980, per poi approdare in bianconero nel 1982 dopo un mondiale da protagonista (e la semifinale contro l'Italia, persa due a zero). Tre anni, uno Scudetto, una Coppa Campioni e una Coppa Coppe, e poi via alla Roma, società che aveva già un accordo con il polacco tre anni prima.

Settimo posto - Centododici presenze con la maglia dell'URSS condite da quarantadue gol, un simbolo per la Dinamo Kiev di Valerij Lobanovskij. Un vero e proprio cannibale dell'area di rigore, Oleg Blokhin, capace di vincere per cinque volte il titolo di capocannoniere del campionato russo, oltre a un Pallone d'Oro nel 1975 - quando la Coppa Campioni non era l'unico trofeo importante d'Europa - vinto grazie a una doppietta contro il fortissimo Bayern Monaco nella Supercoppa Europea. Un palmares da spavento, soprattutto pensando che Blokhin era in realtà più un'ala sinistra che non un centravanti, capace comunque di bruciare gli avversari sullo scatto. Negli ultimi anni di carriera venne leggermente arretrato, altrimenti chissà quante altre volte avrebbe vinto la classifica cannonieri...

Sesto posto - Il numero undici parla anche di calci al pallone. Ovviamente di sinistro. E quello di Dio, per utilizzare il nomignolo che ha accompagnato la vita interista di Mario Corso è certamente uno dei più ricordati. Ha una particolarità, in comune con Alfredo di Stefano. Non ha mai disputato un mondiale. E contro la saeta rubia ci ha giocato, vincendo la prima Coppa Campioni della storia interista, con in panchina quel mago di Helenio Herrera. Poi, le punizioni, il calcio mancino che finisce col morire in rete senza che il portiere possa farci più di tanto. Chiaramente coi calzettoni abbassati, come i migliori sudamericani.

Quinto posto - Letale come il morso di una Vipera, Ronaldo ne ha ripercorso le orme fino al passaggio al Barcellona. All'anagrafe risponde al nome di Romário de Souza Faria, strabiliante attaccante brasiliano che ha abbracciato - a suon di gol - quasi trent'anni. La disputa eccezionale è sul numero dei gol. Il venti maggio 2007, oltre le quarantuno primavere, firma la sua millesima rete considerando le giovanili e i match non ufficiali. La FIFA si congratula, ma gli fa sapere che in realtà i gol sono 929 e che quindi non rientra nella ristretta cerchia (composta da Pelé e Puskas) dei millenari. Il Vasco da Gama, squadra che l'ha lanciato nel grande calcio, ha ritirato la sua maglia. Con che numero? Ma l'undici, che domande.

Quarto posto: "Castegner! E Rummenigge sta sempre a segner!". Una citazione che chiunque ama il calcio, in Italia, non può che non ricordarsi. Lino Banfi, alias Oronzo Canà, nel celeberrimo Allenatore nel Pallone. Il numero undici in questione, con Falchetti e Mengoni che vengono ceduti per acquistare (ma solo sulla carta) Karl-Heinz Rummenigge, professione attaccante, uno che di gol - nella sua carriera - ne ha marcati moltissimi, vincendo anche un Europeo con la Germania proprio in Italia, nel 1980. Beckenbauer lo aveva marchiato già al primo allenamento, spiegandogli che "non diventerà una stella". Kaiser Franz, per una volta, si sbagliava. Velocità e potenza, in un miscuglio decisamente fuori dal comune, un vero e proprio panzer che poteva segnare in qualsiasi modo. Ve lo ricordate, Schneider, il campione tedesco di Holly e Benji. Ecco, era ispirato a lui.

Terzo posto - Siamo passati dal bianco e nero ai colori, parlando di come il calcio fosse visto soprattutto dalla televisione. Torniamo al bianconero, ma adesso solamente per scelta della società, non per una questione cromatica. L'elemento più vicino al nostro calcio, quel Pavel Nedved ritiratosi nel 2009 dopo quasi 400 presenze nel campionato del Belpaese. Chioma bionda, tanta corsa, splendida tecnica e un tiro terrificante, Nedved si presentò al nostro calcio nella maniera peggiore. 14 giugno 1996, corre il quarto minuto e corre anche il centrocampista ceco, che infila la porta italiana per un risultato strepitoso: Repubblica Ceca-Italia 2-1. Sogni di europeo che arrivano fino alla finale, fino al gol di Bierhoff nei supplementari che ridà lustro al nostro calcio. Ci penserà poi Nedved a darlo, per molti anni a venire. Top: il pallone d'oro. C'è anche un flop? Sì, l'ammonizione contro il Real Madrid nella semifinale della Champions 2003, che lo costringe a saltare la finale contro il Milan, forse l'apogeo del nostro calcio. Straordinario.

Secondo posto - A proposito di campioni, Francisco Gento. I più giovani potrebbero chiedersi "e chi è?", ma chi ha studiato la storia del pallone riconosce che Gento è probabilmente la migliore ala sinistra di tutti i tempi. Un fulmine sul campo da gioco, il suo impatto con il Real Madrid fu disastroso. Per la foga e per provare a tutti la sua velocità, spesso si dimenticava il pallone dietro. Lui partiva e la sfera no, con gli avversari che la riprendevano. Una mancanza decisamente imperdonabile. E allora, cosa fare? Cederlo? Assolutamente no, acquistare Héctor Rial per sfruttarlo nella maniera migliore. Gento si trasforma e diventa una sorta di Garrincha. Centoventisei gol nella Liga con la Camiseta Blanca, ma non contiamo gli assist. Una fabbrica. Segni particolari: è nato in Cantabria, e il suo sogno da ragazzino era quello di giocare con la maglia del Racing Santander. Ha fatto la storia del Real Madrid, otto finali di Champions League di cui sei vinte. La tempesta del mare Cantabrico.

Primo posto: Se parliamo di tempesta, non possiamo dimenticare i tuoni. Da italiani, anche un po' sciovinisti, parliamo del Rombo di Tuono del nostro calcio, per dirla alla Brera. Gigi Riva è uno dei più grandi attaccanti del dopoguerra, nato calcisticamente nel Varesotto ma poi trasferitosi al sole della Sardegna, con mille perplessità e dubbi. Passo passo diventa la bandiera del Cagliari, fino allo storico scudetto del 1969/70, vinto dai rossoblù grazie ai ventuno gol dell'attaccante di Leggiuno. Un titolo europeo, un secondo posto ai mondiali 1970 vinti dal grande Brasile di Pelé, un secondo posto al Pallone d'Oro del 1970. Serve altro? "A Gigi Riva il piede destro serve solo a salire sul tram". Parola di Manlio Scopigno, uno dei grandi del calcio che fu, allenatore proprio di quel Cagliari scudettato. Riva come sogno proibito di Angelo Moratti, innamorato di quel piede mancino. Sarà per quello che il figlio ha una predilezione per i calciatori che usano solamente il sinistro?

Menzione ad honorem - "Se non fossi stato così bello, non avreste mai sentito parlare di Pelè". Non si può dire che non avesse stima di se stesso, George Best da Belfast. Una delle ali migliori di tutti tempi, con il sette, a Manchester. L'antesignano dei grandi numeri sette dei Red Devils, passando per Cantona e Beckham e finendo a Cristiano Ronaldo. Quando atterri a Belfast City, avrai la vera dimensione del quinto Beatles. L'aeroporto è in suo onore, una meraviglia per chiunque ami il calcio. E' morto prematuramente, vittima della sua passione per gli alcolici, compagna di vita che non lo lascerà mai, a differenza delle varie mogli o amanti che l'hanno accompagnato. L'altra citazione famosa recita di donne, macchine veloci e alcool. Un po' come il grande numero sette del calcio mondiale, probabilmente il migliore di tutti. Il poliomelitico Garrincha, il passero zoppo, un giocatore incredibile, infermabile. Faceva quasi pena a guardarlo, con quell'andatura ciondolante e un dribbling uno. Che andava sempre a segno, per la gioia dei supporters della nazionale brasiliana e del Botafogo, la sua squadra di sempre. Un'infanzia difficilissima, con un padre morto di cirrosi quando aveva cinque anni. Il nomignolo, Garrincha, arriva dagli uccellini che da bambino cacciava: cantano bene e non accettano la cattività, meravigliosa sintesi del campione. Un libro di aneddoti non basterebbe, ma le lacrime dopo il saluto del Maracanà, riempito da oltrecentotrentunmila persone, nel suo ultimo giro di campo, spiegano tutto di un campione maledetto. Muore a quantanove anni, di cirrosi epatica, come Best, come suo padre.
Perché la menzione speciale per due numeri sette? Per la maglia della nazionale, ovviamente. Best indossava l'11, così come Garrincha lo ha fatto nei mondiali del 1958.