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Non c'è più la Jugoslavia

Non c'è più la JugoslaviaTUTTO mercato WEB
© foto di Giuseppe Celeste/Image Sport
mercoledì 15 ottobre 2014, 15:002014
di Andrea Losapio

Il minuto quarantatré, per Serbia e Albania, non avrà più lo stesso sapore. Perché, dopo un primo tempo combattuto da una parte e dall'altra - ma il cui risultato è passato decisamente in secondo piano - un drone è volato sullo stadio, inneggiando all'indipendenza del Kosovo, territorio conteso e sospeso, ma con la bandiera della Grande Albania. Una data, quella della formazione dello stato albanese, e due figure: Ismail Qemal Bej Vlora, politico che da Valona autoproclamò l'indipendenza (e morto a Perugia), e Isa Boljetinac, Boletini per gli italiani, morto a Podgorica, attualmente capitale del Montenegro. Mitrovic prende la bandiera, i calciatori albanesi gli zompano addosso, tutto finisce in una maxi rissa con sospensione della partita.
L'atto non è certo dei più pacifici, perché il Kosovo è stato al centro - dopo la disgregazione della Jugoslavia - di guerre e repressioni, da una parte e dall'altra. Questo perché non ha mai avuto, al contrario di altre sei province dai tempi di Tito, la possibilità di secessione. Alla stregua della Voivodina, altra provincia autonoma ma che non potrebbe staccarsi dalla Serbia. E poi perché Slobodan Milosevic, presidente probabilmente non all'altezza (politica) di Tito, incominciò addirittura a togliere diritti - eliminando le scuole, non riconoscendone la lingua, etc - agli albanesi. Che, di fatto, in Kosovo sono circa il 90%: da rivolta non violenta, almeno iniziale, a partire dal 1992, si arrivò, tempo qualche anno, a una pulizia etnica ributtante. Fino all'entrata in gioco dell'ONU nel 1999 e i vari trattati che portano allo stato attuale.
Il Kosovo non è una nazione indipendente, perché non tutti i paesi lo riconoscono. Ventitré su ventotto dell'UE, 108 in giro per il Mondo, con Russia e Cina contrarie: questo perché, a loro volta, vivono una possibilità di disgregazione ulteriore (basti pensare all'Ucraina o alla Cecenia, oppure al Tibet), meccanismo che porta a essere contrari pure Spagna (Catalogna e Paesi Baschi) e Cipro.

Negli ultimi anni la Serbia ha dato grande autonomia al Kosovo, mantenendo però diritti anche ai serbi ancora presenti, soprattutto a nord di Mitrovice, o Kosovska Mitrovica, che si divide esattamente in due con il fiume a fare da reale linea di demarcazione di un confine in realtà non esistente. La Serbia si è lentamente "ritirata", ma non riconoscerà mai l'indipendenza del Kosovo.
Questi i fatti: chi ha fatto volare il drone - il fratello del presidente albanese, in visita in Serbia dopo 70 anni, è stato anche arrestato e successivamente rilasciato perché indiziato per l'accaduto - persegue un obiettivo politico. Quello di unificare una grande Albania, che idealmente comprenderebbe pure Macedonia e Montenegro, oramai nazioni in tutto e per tutto: uno schiaffo inaccettabile per un popolo come quello serbo, ultra nazionalista e che vive da sempre su divisioni livellate sull'altare di una patria unita, almeno finché c'è stata la Jugoslavia.
A parte la (poca) intelligenza dell'UEFA di non far giocare Gibilterra-Spagna per poi permettere un Serbia-Albania, c'è pure un Armenia-Azerbaigian che non viene giustamente disputato causa conflitto ancora in corso. Oppure la stessa Serbia che affronta la Croazia in stadi ai limiti della blindatura per evitare che divampi il caos all'interno. C'è da dire che le questioni irrisolte e politiche poi sfondano la porta e trovano modo di attecchire nel modo peggiore che ci sia: con questa mossa l'Albania ha riportato alla ribalta una questione che ardeva sotto la cenere e per cui basta un po' di vento per essere di nuovo al centro delle politiche internazionali (sperando di evitare nuovi scontri). Senza contare poi i frequentatori degli stadi serbi, vera dimora dell'ultradestra: il nazionalismo serbo colpisce duro, al ventre, dal Partizan Belgrado alla Stella Rossa, in quel derby eterno che ogni volta rischia di finire male. Bogdanov ieri era sugli spalti, ai tempi Arkan era il capo degli Ultras della stessa Crvena Zvezda, i gruppi politici inseriscono i propri dirigenti nei quadri della società: il calcio, mai come in Serbia, è soprattutto politica. E l'intromissione di una Grande Albania non può non essere vendicata. Ieri poteva pure finire peggio, molto peggio.