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Nobiltà bianconera... Ma che ne sai?
martedì 27 settembre 2016, 11:30Primo Piano
di Franco Canciani
per Tuttoudinese.it

Nobiltà bianconera... Ma che ne sai?

Quarant’anni.

Quarant’anni fa ero lì, sotto l’arco del Friuli. Faceva ancora caldo, il cielo prometteva un pomeriggio di divertimento, finalmente, dopo mesi di terrore, ansia, depressione.

Invece durante quell’Udinese-Seregno, ventisei di settembre 1976, l’Orcolàt ci fece sapere che lui no, non aveva ancora mollato la presa: scossa seria, mio padre la sentì, mi strinse il braccio e senza distogliere lo sguardo dal campo mi mormorò “stà bòn”. Laconico papà Gianni, mai una parola più del necessario.

La sbloccò Claudio Pellegrini, per gli annali Pellegrini III, e finì così. Terza vittoria di fila, prima in casa sotto l’arco del Friuli (o la denominazione commerciale è retroattiva?); l’allenatore era Livione Fòngaro, non ci fu la promozione ma i germi dell’Udinese-totale di Giacomini si vedevano già in campo. La proprietà di Pietro Brunello aveva lasciato il campo a un “gelataio” del veronese, arrivato a Udine fra lo scetticismo generale del popolo friulano, oggettivamente impegnato in altro; ma quel suo inizio, sul triciclo da gelato fuori dal Comunale di Torino, lo accomunava allo spirito friulano. Quel gelataio si chiamava Sansòn, il “mio” presidente, che ancora oggi ad occhi chiusi vedo in piedi, sui banchetti della tribuna stampa, lanciare baci dopo la vittoria del 1981 sul Napoli: ultima sua gara da conduttore dell’Udinese.

Ma i giocatori, gli allenatori, molti dirigenti che negli ultimi anni hanno lavorato all’Udinese, che ne sanno? Se ne sanno?

Lo sanno, Adnan o Armero, DePaul o Théréau, che da più di quarant’anni il popolo friulano sciama in giro per l’Italia, pacifico e festoso, per portare la propria voce ed il sostegno di una terra intera al seguito della Biancanera? Sì? Allora perché in campo si comportano come se stessero facendo un piacere a chi spende tempo e denaro per correr loro dietro: incapacità o ignoranza? E si risparmino i loro “i tifosi meritano di più”, abbiano rispetto per la nostra intelligenza.

Lo sanno, i giocatori o Iachini, che per questa maglia giocatori come Della Corna o Fanesi, Tesser o Bertotto, hanno sacrificato tibie, péroni o ginocchi, senza risparmiarsi mai? E che ancor oggi, parlando al telefono con Pasquale Fanesi, si percepisce di quanto sia rimasto legato alla nostra Piccola Patria? E fra dieci mesi, come vivranno Kums o Zapàta la partenza da Udine? Sarà rammarico o piuttosto sollievo?

Lo sanno, i dirigenti e i responsabili del marketing udinese, che con cinquecento anime bellissime al seguito, continuare a giocare in biancogrigio sembra quasi un passo verso tori e colori di una nota bevanda energetica trasposti sulle casacche udinesi, non più incubo ma solida realtà? E tutto questo perché? Non certo per il motivo per il quale le seconde maglie furono concepite, evitare la confusione fra le due formazioni in campo (ed io sono vecchio abbastanza quando “per dovere di ospitalità” le maglie blu l’Udinese le indossava in casa, contro Juniorcasale o Biellese, o i tuttibianchi della Pro Vercelli); piuttosto per invitare i tifosi ad acquistare mille tenute diverse... Esattamente come tutte le altre formazioni.

Ma lo sanno, costoro, che la mia maglia più cara è di pesante “lanetta”, risale al 1978 e reca il numero tre? Niente sponsor, né targhette o marca. Niente patch, niente “frills”. Solo righe, alternate, bianche e nere di uguale larghezza. Ed un numero ricavato da una pezza di pelle. Niente capi tecnici, tanta pioggia quel giorno (Udinese-Alessandria, giugno 1978) ed il sudore di un rincalzo, tale Soro.

Ma cosa ne sanno, nella multinazionale Udinese, della fortuna dell’orgoglio della nobiltà di questi colori? Cosa ne sanno della famiglia Savorgnan che ha donato il bianco ed il nero? Sanno chi sono stati Dal Dan, D’Odorico detto Dodo, Bruseschi, Ulivieri, Zico, Surjak nella storia passata?

Oggi Paolo Poggi ha affermato, nella diretta radiofonica con il fratello Lorenzo Petiziol, come l’attaccamento alla maglia non sia articolo in vendita allo “store”. E io, che dell’affezione di Paolo, di Marcio, di Gigi, di Valerio Pierino e Alessandro per questi colori non riesco proprio a dubitare, sento la scimmia salirmi alla spalla, incarognita come non mai.

E mi fermo a pensare. Mi dicono che i giocatori sentono la pressione di giocare nel modernissimo bunker griffato “auto romena”. Davvero? E mi dico, fosse così, cosa ne sanno, i nostri professionisti, dei ragazzi che in curva urlano la loro passione per novanta minuti più il recupero; che sono riusciti nell’impresa incredibile di trascinare nel loro entusiasmo anche i distinti; che battono le mani al ritmo dell’orgoglio di appartenenza, della nobiltà che ogni maledetta domenica (o infrasettimanale...) testimoniano: loro, non proprio i giocatori in campo?

E a questo punto giusto così: giochino con le maglie grigie, arancioni, giallo fluo, se portare il bianconero è semplicemente indossare un capo tecnico, svernando in attesa di ricevere la chiamata da una squadra di cui, casualmente, erano tifosi sin da bimbi.

Ma non si aspettino più la mia indulgenza. Pagano, i non scarsi giocatori di questa rosa, tre anni d’accumulo di frustrazione, di delusione, di incapacità a capire le ragioni di un fallimento. Perché noi siamo l’Udinese, maiuscolo non minuscolo, orgogliosi di esserlo senza bisogno, per sentirsi realizzati, di “tenere” a squadre cosiddette “grandi”. Grandi, ma non per noi: noi che abbiamo visto la crescita, dai pareggi di Omegna e Valdagno, da quell’1-0 contro il Seregno che oggi milita in quarta serie, su, su, su fino a comandare a  casa di Juventus, Milan, Inter e Parma. Comandare: vincere tre a zero, con rose non necessariamente superiori a questa, ma con valori umani e tattici imparagonabili.

Nessuno più contento di me di chiedere scusa, se mi sbaglio; se sono attaccati alla maglia come nessuno prima; se è solo questione di condizione fisica, di lavoro da svolgere, di imparare dagli errori, di ripartire dall’ultimo quarto d’ora; se smentiranno la mia idea, cioè la loro soddisfazione di raggiungere una salvezza “tranquilla”, ché siamo solo “l’udinese”.

Perché noi siamo la nobiltà biancanera: provata, asseverata, certificata. Loro, ancora, no.