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L'Italia e la percezione del razzismo: conta meno zingaro rispetto ai buu?
A Brescia è stata l'ennesima serata da dimenticare, almeno per quanto riguarda l'opportunità di stare zitti. Perché i cori a Miralem Pjanic, definito come "zingaro di m...", rappresentano un'altra coltellata alla credibilità del tifo italiano. O, per allargare la forbice, del vivere civile. Se è vero che i cori presenti in altri sport - come la pallavolo, dove le tifoserie si salutano e si ringraziano a vicenda - nel calcio non sono mai esistiti, dall'altra parte, a pochi giorni dall'appello del presidente della FIFA Gianni Infantino, continuare a insultare un giocatore per la propria provenienza geografica, con il solito stereotipo dello slavo con accezione negativa, sembra tirarsi la zappa sui piedi.
CONTA MENO ZINGARO RISPETTO AI BUU? Quanto può valere un profluvio di insulti, arrivato da tutto lo stadio e percepito chiaramente in diretta? Meno degli ululati e dei buu a Lukaku, Kessie o Dalbert? Nel comune sentire probabilmente è meno sentita l'offesa "territoriale" rispetto a quella sul colore della pelle, ma rimane un segno greve dei tempi. Un'epoca in cui chiunque può sentirsi in dovere e in diritto di insultare ferocemente l'avversario, pungolandolo su qualcosa che non può cambiare, solo per metterlo in difficoltà. Ammesso e non concesso che colpire le debolezze è un meccanismo in vigore dalla notte dei tempi.
LO SCIVOLONE - Ci ha pensato poi il presidente del CONI, Giovanni Malagò, in diretta a Radio24 a fare capire qual è la reale percezione di un problema che viene minimizzato dalle stesse istituzioni."Il tifoso che fa buu a un giocatore di colore sbaglia, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore". C'è un pericolo di fondo: considerare come normale qualsiasi cosa si dica in uno stadio, come fosse un social network, convinti della propria impunità (che poi è solo presunta e non reale). Giustificare comportamenti aberranti e spostare il punto, in un concentrato di benaltrismo che non aiuta a controllare il fenomeno, ma solo ad alimentarlo. D'altronde se una carica istituzionale non vede il problema, paragonandolo a qualcosa che non c'entra nulla, perché dovrebbe farlo il singolo tifoso?
LE SOLUZIONI - Il sempreverde modello inglese prevede punizioni magistrali a chi si macchia di certi comportamenti all'interno di uno stadio ma, per anni, il razzismo è stato un punto focale. Ben prima di Sterling, nella patria del primo coming out calcistico - quello di Justin Fashanu, atleta di colore che si è ucciso dopo essere stato accusato di stuprare un diciassettenne nel Maryland - dove gli insulti omofobi e razzisti hanno rappresentato un enorme strumento di disuguaglianza sociale. Più che ingigantire il problema, servirebbe limitarlo e avere una certezza della pena, anche patrimoniale. È l'unico modo per educare e abituare, in maniera rapida, chi pensa che lo stadio sia una guerra e non un momento di socialità.
CONTA MENO ZINGARO RISPETTO AI BUU? Quanto può valere un profluvio di insulti, arrivato da tutto lo stadio e percepito chiaramente in diretta? Meno degli ululati e dei buu a Lukaku, Kessie o Dalbert? Nel comune sentire probabilmente è meno sentita l'offesa "territoriale" rispetto a quella sul colore della pelle, ma rimane un segno greve dei tempi. Un'epoca in cui chiunque può sentirsi in dovere e in diritto di insultare ferocemente l'avversario, pungolandolo su qualcosa che non può cambiare, solo per metterlo in difficoltà. Ammesso e non concesso che colpire le debolezze è un meccanismo in vigore dalla notte dei tempi.
LO SCIVOLONE - Ci ha pensato poi il presidente del CONI, Giovanni Malagò, in diretta a Radio24 a fare capire qual è la reale percezione di un problema che viene minimizzato dalle stesse istituzioni."Il tifoso che fa buu a un giocatore di colore sbaglia, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore". C'è un pericolo di fondo: considerare come normale qualsiasi cosa si dica in uno stadio, come fosse un social network, convinti della propria impunità (che poi è solo presunta e non reale). Giustificare comportamenti aberranti e spostare il punto, in un concentrato di benaltrismo che non aiuta a controllare il fenomeno, ma solo ad alimentarlo. D'altronde se una carica istituzionale non vede il problema, paragonandolo a qualcosa che non c'entra nulla, perché dovrebbe farlo il singolo tifoso?
LE SOLUZIONI - Il sempreverde modello inglese prevede punizioni magistrali a chi si macchia di certi comportamenti all'interno di uno stadio ma, per anni, il razzismo è stato un punto focale. Ben prima di Sterling, nella patria del primo coming out calcistico - quello di Justin Fashanu, atleta di colore che si è ucciso dopo essere stato accusato di stuprare un diciassettenne nel Maryland - dove gli insulti omofobi e razzisti hanno rappresentato un enorme strumento di disuguaglianza sociale. Più che ingigantire il problema, servirebbe limitarlo e avere una certezza della pena, anche patrimoniale. È l'unico modo per educare e abituare, in maniera rapida, chi pensa che lo stadio sia una guerra e non un momento di socialità.
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