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ESCLUSIVA TMW - L'Italia e il calcio ai tempi del Coronavirus: parla Franco CarraroTUTTO mercato WEB
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
domenica 29 marzo 2020, 11:00Serie A
di Ivan Cardia
esclusiva

L'Italia e il calcio ai tempi del Coronavirus: parla Franco Carraro

“Io penso che tutto il Paese, in tutti i settori, non avesse capito quello che stava succedendo. Il virus purtroppo è stato molto più veloce della nostra capacitò di reazione: non c’è un settore di attività che sia risultato immune”. Tre volte a capo della FIGC, tre volte alla guida della Lega Calcio. Sindaco di Roma e per nove anni presidente del CONI: chi meglio di Franco Carraro, per farci raccontare l’Italia e il momento che sta vivendo il nostro Paese. Abbiamo capito in ritardo la minaccia che rappresentava il Coronavirus? “Anche la scienza è arrivata in ritardo. Speravamo, in tutta Italia, senza fare distinguo, che la Cina fosse lontana in tutti i sensi per noi. Non abbiamo fatto tesoro delle loro esperienze, e in tutti i settori siamo stati sorpresi. È successo anche nel calcio, ma stiamo parlando di un ritardo di 24 o 48 ore. Io ho ben impresso il ricordo di quando si proponeva di giocare a porte chiuse: qualcuno diceva che significava ledere l’immagine dell’Italia nel mondo. Poi abbiamo capito che eravamo oggetto di un’epidemia, che tra l’altro è nel frattempo diventata pandemia. Diciamo che il mondo del calcio è arrivato in ritardo a capire la gravità della situazione, ma lo stesso si può dire per il Paese, per l’Europa e anche per tutto il resto del pianeta. Penso agli Stati Uniti d’America: parliamo di un Paese che ogni anno, quando vengono conferiti i premi Nobel di carattere scientifico, ne vede assegnati dal 60 al 70% a professionisti che studiano o lavorano in USA, eppure sono stati sorpresi anche loro”.

Il Papa che prega in una San Pietro deserta resterà una fotografia storica. Quanto l’ha colpita?
”È stata una delle immagini più efficaci nel rappresentare la situazione attuale. Il Papa solo sotto la pioggia, la meraviglia di San Pietro e questa solitudine agghiacciante. Al di là di quello che rappresenta per il mondo cattolico, è una plastica immagine dell’universo che è coinvolto in questa vicenda. Mi sembra che si faccia prima a fare l’elenco dei Paesi che non sono stati colpiti”.

Nel ’74 lei era presidente di Lega quando scoppiò l’epidemia di colera a Napoli. Almeno all’inizio, almeno in parte, le ha ricordato un po’ quella situazione?
“Quella fu un’esperienza scioccante, però c’è una grande differenza: lì si capì subito che era una cosa drammatica ma circoscritta geograficamente. Toccò la sensibilità delle persone attente a Napoli, ma in altre parti d’Italia probabilmente ci fu chi nemmeno se ne accorse. Del resto, di immagini tragiche nella storia del Paese ne abbiamo avute: il terremoto strazia, tocca l’immaginario collettivo e l’opinione pubblica. Ma fin qui si parlava di eventi circoscritti. In questo caso, soffre una zona particolare del Paese più delle altre, ma tutti temono che possa arrivare la stessa sofferenza. Soprattutto, la cosa che mi impressiona di più è che la scienza di tutto il mondo sia concentrata nello studiare le contromisure: finora, però, non ci sono prospettive concrete, ma solo una serie di ipotesi, e nessuno sembra vederne la fine”.

Ritiene possibile, o comunque prioritario, finire la stagione?
“Credo che decidere adesso sia proprio impossibile, così come ipotizzare in che direzione si andrà: dipende da quale sarà l’andamento. Tutti devono sperare di finire la stagione, per il semplice fatto che significherebbe che il Paese si è ripreso. Dico anche un’altra cosa: non mi pare pensabile che il calcio sia una delle prime cose che riparta a livello nazionale. In ogni caso, penso che avremo idee chiare sulla ripresa, sulla speranza di ripartire, da qui a 15 giorni. Se nella settimana che precede Pasqua ci sarà la sensazione che il picco è arrivato, forse qualche speranza si potrà coltivare. Tra l’altro, per una serie di motivi, anche organizzativi, mi pare che per i campionati minori sarà ancora più difficile. Se ne parla poco, ma saranno toccati moltissimo dalla situazione socio-economica che si sta determinando, seria e preoccupante. Sul piano organizzativo, io penso che bisogna pensare anzitutto alla salute dei giovani: noi, e intendo quelli della mia età, sappiamo che dobbiamo stare attentissimi, ma bisogna anche capire quali rischi ci saranno per i giovani, se questa malattia può avere conseguenze permanenti, quanto tempo sarà necessario per tornare in campo in sicurezza”.

Cambierà il calcio, cambierà il calciomercato.
“Pensi all’aspetto organizzativo delle società: quelle grandi, soprattutto di Serie A, hanno strutture di un certo tipo. Ma le altre sono realtà nelle quali i presidenti, nel 95% o forse anche più dei casi, di anno in anno versano soldi freschi per andare avanti. Non sono campionati in attivo e la situazione si complicherà ulteriormente. La cessione dei cartellini alle società di Serie A sarà più difficile, così come realizzare plusvalenze. In più tutte le imprese avranno da affrontare la crisi determinata dallo stop. Il mondo da questa vicenda ne uscirà più povero, figuriamoci l’Italia. E avremo problemi ancora più seri. Il ministro del mezzogiorno, in una recente intervista, ha detto che ci sono dei timori per la democrazia, a causa di questioni economiche. Pensare che le società di calcio non abbiano dei problemi è utopistico”.

Siamo arrivati impreparati a quest’emergenza? Senza i nostri bilanci in rosso forse l’avremmo retta meglio.
“Lo sport in generale, ma il calcio in particolare, è un settore delle attività del nostro Paese. Che è uno dei più indebitati al mondo. Per spiegare il perché servirebbe un libro, non basterebbe certo un’intervista. Come si può pensare che il calcio, un settore, fosse esente da questa che è una situazione generale? Io credo che abbia dei difetti complessivamente, ma penso anche che il calcio sia meno inefficiente rispetto al resto del Paese. O più efficiente del resto del Paese, se vogliamo guardare al bicchiere mezzo pieno. La fotografia è nei proprietari dei nostri club: anche se ora sono arrivati diversi stranieri, in grande maggioranza sono italiani. Con la loro, la nostra, capacità di improvvisare, di inventare soluzioni fantastiche. Ma anche la nostra incapacità al rigore. Siamo il contrario, se mi consente una generalizzazione, della mentalità teutonica. Per i tedeschi il debito pubblico è come l’immagine del diavolo, la Repubblica di Weimar li continua a ossessionare. Noi siamo l’opposto da questo punto di vista, e tutto ciò influisce sia sul bilancio dello Stato che su quelli delle società di calcio. Ma devo dire che qualche passo in avanti è stato fatto”.

In che direzione?
“Negli ultimi anni il calcio, e penso nello specifico alla Serie C, ha fatto un grande sforzo di organizzazione. Forse le società professionistiche sono ancora troppo numerose, però sono state quasi dimezzate. Voglio dire: abbiamo lavorato nella giusta direzione. Stavamo ristrutturando. Ora alla ristrutturazione si aggiungerà il dramma economico e sociale rappresentato da questa tragedia che è in primo luogo sanitaria”.

Lei è stato l’ultimo presidente di Lega a vedere vincere una squadra che non fosse del nord. I tifosi della Lazio vedevano, vedono, il titolo possibile. A livello sportivo, si potrebbero mangiare le mani per un’occasione persa.
“Non so quanto sia corretto in questo momento dire ai tifosi della Lazio: mangiatevi le mani. Hanno ancora un barlume di speranza e credo che, fino al giorno in cui non sarà accertato che la stagione sia finita, abbiano il diritto di coltivarlo. È una cosa da tenere presente. E poi, più che una speranza ne hanno due: la prima è che il campionato vada avanti. Ma la seconda è che nel caso siano loro a vincerlo. Non è sicuro che se si continuerà trionfi la Lazio, c’è la solita Juventus che è forte e attrezzata. Però c’è un’altra considerazione da fare”.


Prego.
“Io di romano so poco, ma sono stato sindaco di Roma e conosco benissimo la città. A Roma si dice facce sognà. Se si riprendesse l’attività, credo che ci sarebbe una grande novità, una grande incognita determinante: la reazione di ciascuno a questo cataclisma. Mettiamo che si dica ricominciamo il giorno tal dei tali. Anzitutto, me lo lasci dire, sarebbe bellissimo perché vorrebbe dire che il Paese ha superato questa crisi. Però poi può darsi che la squadra X si ritrovi in forma e la squadra Y no. Tutti i parametri sono saltati. So che i giocatori si sentono quotidianamente con i rispettivi allenatori e preparatori, però alcuni sono in Italia, altri sono andati via. C’è chi si allena di più, chi meno. Sono cose che avrebbero un loro peso”.

A proposito di scudetto: se la stagione non riprendesse lo assegnerebbe comunque?
“Faccio una premessa: rispondo a domande da decenni, ma non ho mai risposto sulle ipotesi. Sono tante e si perde tempo. Se si arriverà a questa situazione la federazione prenderà la decisione giusta, si farà dare pareri tecnici, guarderà i precedenti. Va anche tenuto presente un dato di fatto, e ripeto una cosa che ho già detto in altre occasioni”.

Il pensiero va al 2006.
“Esatto. L’assegnazione dello scudetto è una cosa. Classificare le squadre per i piazzamenti in Champions, in Europa League, per le retrocessioni è un’altra. Queste sono decisioni che non puoi non prendere, mentre assegnare lo scudetto non è obbligatorio. E lo dico col massimo rispetto per chi deciderà, è una questione tecnica. Devi dire all’UEFA chi disputerà le coppe e devi decidere chi retrocede: sono cose fondamentali in funzione del campionato 2020-2021. Io ho detto, già in passato, che secondo il mio punto di vista il commissario della Federcalcio nel 2006, Guido Rossi, fece benissimo a indicare l’Inter come prima squadra. Erano arrivate sentenze in tempi molto rapidi, anche alcune che poi si sono dimostrate approssimative. E lui fece benissimo a iscrivere le squadre alla Champions League, a dare sanzioni che peraltro furono oggetto di un patteggiamento con le società. Viceversa, ho sempre detto che l’assegnazione dello scudetto all’Inter fu un errore, proprio perché sono due cose diverse”.

Già che ci siamo. Giraudo ha fatto ricorso alla Corte CEDU. Calciopoli finirà mai?
“Calciopoli dal punto di vista sportivo è finita, già da un bel pezzo. Nulla toglie però il diritto alla difesa, legittimo e irrinunciabile. Non è una questione che deve interessare gli sportivi, ma trovo legittimo che una persona, anche senza conseguenze pratiche, voglia affermare le proprie ragioni e tutelare la propria immagine“.

Lei è stato anche presidente del Milan. Con Berlusconi è finita un’era, come vede il Diavolo di oggi?
“Io ho lasciato la presidenza nel 1971. Da lì in poi, ho fatto il dirigente sportivo a vari livelli e ho sempre dovuto essere razionale. Ho sempre nascosto i miei sentimenti, e credo di essere sempre stato al di sopra delle parti. Detto questo, è chiaro che sono un simpatizzante del Milan. E non c’è dubbio che, dall’addio di Berlusconi e del mio amico Galliani, che per me è il dirigente sportivo più bravo, un momento non certo positivo. Si spera sempre che finisca, e arrivi l’anno buono”.

Da presidente federale, quanto le sarebbe dispiaciuto vedere rimandati di un anno gli Europei? Ci arrivavamo quasi da favoriti.
“Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo. Soprattutto per il motivo per cui non si fa l’Europeo, che è un dramma sanitario, sociale ed economico in cui è piombato il Vecchio Continente. Detto questo, non sono un esperto di calcio o un tecnico, io mi intendo soltanto di organizzazione. Ma ho una sensazione: che la nostra sia una nazionale in crescita. Non vedo giocatori che nel prossimo anno invecchieranno, ma in compenso tanti giovani che avranno maggiore esperienza e personalità. Sul piano tecnico giocare nel 2021 invece nel 2020 forse non è un danno, anzi. Lei dice che eravamo tra i favoriti, non so se sia così. Ma tra un anno penso che potremmo esserlo ancora di più”.

Sempre su Euro2021, il rinvio è arrivato in modo tardivo?
“Credo sia stato deciso nel momento giusto, per fortuna è stata anche una decisione abbastanza facile. Devo dire che a posteriori bisogna dare atto che l’idea di Platini di un europeo itinerante ha consentito di spostare senza troppe complicazioni la competizione: nessun Paese aveva costruito stadi appositamente. Noi per esempio abbiamo messo a posto l’Olimpico, ma stiamo parlando di una ristrutturazione un po’ più approfondita. E questo ha reso più semplice lo spostamento”.