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#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: Carlos Henrique Raposo, il Kaiser che si è inventato calciatoreTUTTO mercato WEB
giovedì 14 maggio 2020, 01:05Serie A
di Ivan Cardia

#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: Carlos Henrique Raposo, il Kaiser che si è inventato calciatore

#iorestoacasa - Tuttomercatoweb.com propone ai suoi lettori delle storie di calcio per tenerci compagnia in queste giornate tra le mura domestiche
Cosa fa di un calciatore un campione? Talento, abnegazione, fantasia. Sono tutti elementi necessari per diventare dei veri fuoriclasse. Ma anche per sembrare di esser tale. Perché, anche se Madre Natura ti nega doti particolare nel toccare la palla, puoi sempre decidere di rimediare con il tuo impegno e con la tua immaginazione, sforzandoti in tutte le maniere di sembrare un calciatore, pur non essendolo. Se nel fare tutto questo riesci a ingannare un Paese intero, anzi il Paese che più di tutti al mondo ama il calcio, allora forse hai scoperto il tuo vero talento. E riesci a vivere una vita da calciatore senza entrare mai in campo. Impossibile? No, basta avere un pizzico di fantasia. Questa, però, è una storia vera: quella di Carlos Henrique Rapos, il più grande truffatore nella storia del futebol. L’uomo che ha convinto il Brasile, e anche qualche altro Stato.

Rio Pardo, 2 aprile 1963. È qui che inizia tutto, in un piccolo comune nello stato del Rio Grande do Sul, a pochi chilometri da Porto Alegre, nasce Carlos Raposo. Pochi mesi prima, non lontano da lì, è nato Renato Portaluppi, che in questa storia avrà un peso nient’affatto secondario. Ma restiamo sul nostro protagonista: cresciuto in povertà, si appassiona al calcio, come quasi tutti i brasiliani. Guarda le imprese di Pelé, soprattutto guarda i giocatori: belli, ricchi, attorniati da belle donne. Vuole diventarlo a tutti i costi.

Lo chiamano Kaiser. Chi lo chiami per la prima volta così, non si sa. Lui stesso, nel documentario Kaiser! Il più grande truffatore nella storia del calcio, presentato al Festival di Tribeca, racconterà come il soprannome derivi dal paragone con Karl-Heinz Beckenbauer, Pallone d’Oro nel 1972 e nel 1976. A prescindere dalle rispettive carriere, è difficile individuare i contorni e i confini di questa somiglianza: Beckenbauer è passato alla storia come uno dei più forti difensori di sempre, mentre Raposo giocherà, o almeno farà finta di giocare, da centravanti. Più credibili le altre origini del nomignolo: dato il suo fisico grassoccio da ragazzo, Raposo se lo sarebbe guadagnato perché ricorda le rotondità delle bottiglie della birra Kaiser, un marchio tedesco piuttosto diffuso in Brasile. Sta di fatto che, per scelta sua o di qualcun altro, l’epiteto gli resta affibbiato per tutta la carriera.

Primi passi avvolti nel mito. Dove inizi, non è dato saperlo con certezza. Sta di fatto che nel 1983 è a Rio De Janeiro. Sono anni in cui la nazione impazzisce per Zico, che si è appena trasferito in Italia, all’Udinese, ma stravede anche per Portaluppi, per tutti Renato Gaucho, astro nascente del calcio verdeoro e del Gremio. Avrà anche lui un (breve e sfortunato) passaggio nel nostro Paese, ma per il Brasile sarà sempre un grande campione. E a inizio anni ’80 fa impazzire le ragazzine. Raposo gli assomiglia, in questo caso davvero, e inizia la sua grande truffa: si spaccia per Portaluppi, firma autografi per le strade, dichiara di essere un calciatore. Altro che giovanili, è questo il trampolino di lancio della sua carriera. Quando lo viene a sapere, il Gaucho non batte ciglio: è un libertino, ama godere la vita e non vede perché non debbano farlo anche altri, tanto più un suo collega. Anzi, c’è di più: i due si conoscono e diventano amici. Lo sono ancora oggi. Portaluppi prende sotto la sua ala protettiva il giovane Kaiser. Che ci prende gusto.

Campione del mondo con l’Independiente. Iniziano anni di migrazioni. Almeno ufficialmente, Raposo va all’estero a cercare gloria. Dichiara di aver giocato nel Flamengo, nel 1984 assicura di aver vinto la coppa Intercontinentale con gli argentini dell’Independiente. In effetti, c’è un giocatore che ha più o meno il suo nome nella formazione dei Diablos Rojos, ma si chiama Carlos Alberto Enrique, è argentino ed è anche lui nato nel 1963. Le analogie, per fortuna di Kaiser, non finiscono qui, perché incredibilmente i due si assomigliano anche a livello fisico. E, sfruttando i video del proprio (quasi) omonimo, il nostro eroe si fa promozione tra i club, brasiliani e non. Agli immaginifici trascorsi nel Flamengo aggiunge quelli con l’Internacional di Porto Alegre. Non sappiamo in quali squadre si trasferisca effettivamente in questo periodo, ma una cosa è certa: la sua tattica. Perché non sarà una storia di calcio, ma sicuramente è una storia di impegno: Raposo si allena, eccome se si allena. Corre il doppio dei compagni, nelle prove atletiche è tra i migliori. Poi, semplicemente, evita la palla, e anche per questo ci vuole una certa fatica. Da ultimo, lamenta infortuni, ovviamente inventati. Quando si tratta di giocare, lui è indisponibile. Strappa contratti di breve durata e poi dichiara di non essere in gran forma, riuscendo sempre a svignarsela quando stanno per scoprire il suo gioco.

In Corsica. Grazie ai suoi contatti, forse anche allo stesso Portaluppi, nel 1986 si trasferisce al Gazelec di Ajaccio. Alla prima apparizione si presenta alla dirigenza baciando la moglie del presidente in tribuna. Alla prima partita si fa male, strano a dirsi. I suoi compagni di squadra intuiscono la truffa e non l’apprezzano, l’allenatore vorrebbe rispedirlo in Brasile. Il Kaiser però è un simpaticone, e nel periodo in Corsica stringe amicizia con lo stesso numero uno del club, che lo difende e lo spedisce in prestito a El Paso, negli Stati Uniti. Raposo fa avanti e indietro per l’Atlantico, portandosi dietro delle fotografie mentre si allena con la maglia del Gazelec. Quella da partita, però. Perché, se ci avete creduto, il nostro beniamino ha truffato anche voi: Raposo non ha mai giocato per l’Ajaccio. A smentirlo, il brasiliano Alexandre Couto, che in Corsica ha effettivamente giocato in quelle stagioni e per anni ha sempre coperto il suo amico. Salvo poi tradirne la fiducia all’ultimo, per dichiarare la verità.


Ritorno in Brasile da star. Dopo l’immaginifica carriera al Gazelec, dove probabilmente Raposo si è comunque recato, magari proprio in compagnia di Couto, il nostro protagonista fa rientro in patria. Grazie alle foto di Ajaccio, e a tesserini (in molti casi falsi) che certificano la sua verità, lo tessera il Bangu Atlético Club. Se non ne avete mai sentito parlare siete perdonati, ma in questo caso la squadra esiste. Si tratta di una piccola società dello stato di Rio de Janeiro, che a metà degli anni ’80 vive un clamoroso exploit a livello nazionale. Merito del famigerato Castor De Andrade, che ne diventa il presidente e il proprietario. Un personaggio molto particolare, appassionato di calcio e di televisione, nonché tra i boss più pericolosi della criminalità brasiliana. Per capirsi, quando un suo calciatore si dichiara infortunato, lui spara un colpo di avvertimento a pochi passi dalle gambe del malcapitato: a seconda dei riflessi del soggetto nello scansare il proiettore, giudica se l’infortunio sia vero o meno. Grazie ai suoi metodi, e soprattutto ai suoi soldi, la modesta formazione carioca vive brevi anni di gloria. E con Raposo mette a segno un grande colpo internazionale. 


I giornali lo esaltano, ma rischia la vita. Come Zico che torna dall’Italia al Flamengo, anche il Kaiser, che peraltro nel suo curriculum ufficiale ha comunque trascorsi in rossonero, è una star del calcio europeo che riabbraccia il Brasile dopo aver fatto fortuna altrove. Comprensibili, date le premesse, i toni entusiastici dei giornali locali dell’epoca: sono anni senza internet, un paio di foto e qualche rassicurazione verbale bastano a diventare un campione. Raposo, peraltro, si fa volere bene dai suoi compagni di spogliatoio. A scanso di equivoci: non gioca mai, e la palla non la sfiora neanche per sbaglio. Però si presenta alle cene di squadra con un seguito di 30 o 40 ragazze, attirate dalla sua fama di calciatore. Logico l’affetto degli altri giocatori. Col pericoloso presidente stringe un rapporto molto stretto: Il Kaiser a livello mediatico è la stella della squadra. A un certo punto però, anche Castor intuisce la truffa. Si presenta al campo d’allenamento, minaccia di ucciderlo se non gioca, vuole puntare sul presunto fuoriclasse che strapaga ogni settimana. L’allenatore prova a salvarlo: lo convoca, ma lo manda in panchina. Castor lo chiama dalla tribuna e gli ordina di farlo entrare a partita in corso. E qui c’è un colpo di genio del nostro: sente, o immagina, delle offese dagli spalti. Scavalca le inferriate, inizia a fare a pugni con i sostenitori del Bangu e per questo viene espulso. È fatta, non può giocare. A fine partita, De Andrade è furioso: scende negli spogliatoi, vuole farla finita. In tutti i sensi. Raposo si scusa, lampo di genio numero 2: giura che quelle offese che assicura di aver sentito fossero indirizzate al suo amato presidente, di averne solo voluto difendere l’onore. Per sdebitarsi, il patron non solo lo lascia in vita, ma gli rinnova anche il contratto per altri sei mesi, raddoppiandogli lo stipendio. Inutile dire che non giocherà mai.

Le quattro squadre di Rio. È un calciatore, ce l’ha fatta. E non è nemmeno un calciatore come tutti gli altri, è un campione, anche se di cristallo per i suoi frequenti infortuni. Dal Bangu passa al Botafogo, poi al Fluminense. Infine chiuderà il cerchio di Rio de Janeiro vestendo la casacca del Vasco da Gama: sono pochissimi i calciatori che in carriera possono dire di aver indossato le maglie delle quattro squadre principali della capitale carioca, tutte molto prestigiose anche a livello nazionale. Raposo è uno di questi fortunati. Come fa? Continua a farsi volere bene dai compagni, con i suoi capelli lunghi, il fisico scolpito, gli slip e soprattutto un costante codazzo di ragazze pronte a fare amicizia con calciatori come lui. O anche con presidenti, ché al Botafogo diventa uno degli uomini di fiducia del numero uno Emil Pinheiro, “collega” del già citato Osca de Andrade.

Renato c’è sempre. Tappa in Messico Non è un caso se due carriere, quella vera di Portaluppi, nel frattempo tornato in Brasile dalla Roma, e quella molto eterea di Raposo coincidano spesso. Avere amici tra i calciatori, in fin dei conti, è uno dei grandi segreti del nostro protagonista. Che continua, armato di bagagli, foto di sé col pallone e video di calciatori che gli assomigliano, a viaggiare fuori e dentro il Paese. Al Fluminense continua a farsi volere bene da tutti: quando un compagno diventa protagonista in una rissa, Raposo si prende la colpa dell’accaduto. Durante gli allenamenti paga gli altri per entrare duramente, così può simulare un infortunio che opportunamente lo terrà lontano dal campo per un certo periodo. Vola in Messico, al Puebla, e porta con sé un certificato medico che testimonia i suoi problemi dentari.

Il fallimento di Pai Santana. La sua ultima tappa di cui si abbia traccia è al già menzionato Vasco Da Gama. Come in altre occasioni, il presidente non riesce a concepire l’idea di uno stipendio pagato a un presunto fuoriclasse che però non gioca mai. Chiede aiuto a Pai Santana, figura mitologica del calcio brasiliano. Ex lottatore, per anni massaggiatore del Vasco, è un santone con capacità pressoché magiche, un Pai-de-Santo per le religioni afro-brasiliane. Tenta il suo esorcismo anche sul Kaiser, per scacciare gli infortuni. Da parte sua, il nostro eroe paga di tasca propria il guru e gli assicura di non preoccuparsi, ché lui vuole rimanere infortunato a vita e anzi è ben contento di questa sua drammatica e cronica condizione.

L’anticalciatore. Un truffatore, un bugiardo, un simpaticone. Più di tutti, un “anticalciatore”, come lui stesso si definisce nel docu-film già citato. Carlos Henrique Raposo è stato questo, è stato il Kaiser. Oggi fa il personal trainer, l’attenzione al fisico d’altra parte non gli è mai mancata. E alla fine ha dimostrato, per vie traverse, grazie ad amicizie a volte sincere (quella con Portaluppi su tutte) e a volte meno limpide, che per essere un calciatore servono davvero tre cose. Talento, abnegazione, fantasia. Non è detto che poi la palla la si debba toccare per forza.