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Dove eravate due mesi fa, oggi? Quello che oggi non potete perdonarvi

Dove eravate due mesi fa, oggi? Quello che oggi non potete perdonarviTUTTO mercato WEB
mercoledì 22 aprile 2020, 08:31Editoriale
di Tancredi Palmeri

Due mesi, oggi.
Dove eravate la sera del 21 febbraio, due mesi fa?
Il giorno in cui fu rivelato il primo contagiato autoctono in Italia, alla mattina.
Ma che alla sera diventò già paura, perché al telegiornale veniva annunciato che il primo malato dalla mattina era già accompagnato da altri 13 contagiati. E capimmo subito che non era solo la notizia del giorno, ma il presente che stava per venire giù addosso a noi come una valanga dalla montagna del futuro.
Dove eravate la sera del 21 febbraio, due mesi fa?
Io ero seduto per terra negli studi di Radio Italia. Stavo per assistere a uno showcase di Brunori Sas, 200 persone, tutti assittati ad ascoltarlo dare un'intervista, prima del concerto. Da giornalista frenetico non riuscivo a scollegarmi dalla realtà, allora aspettando che il concerto iniziasse avevo distrattamente preso in mano il telefono per controllare gli ultimi aggiornamenti. E avevo letto la notizia che il contagiato della mattina nel giro di dieci ore era già diventato 14 contagiati.
Ricordo nettamente la sensazione di sudore freddo. Ho alzato gli occhi, ho guardato attorno a me le 200 persone in arrivo da vari luoghi della Lombardia e d'Italia, tutte sedute stipate per terra una accanto all'altra, e a chi era accanto a me ho detto: “Forse questa sarà l'ultima volta che vedremo uno scenario simile per un po' di tempo a venire”. Tenendomi invece per me l'altro pensiero: “Speriamo di essere fortunati”.
La rincorsa al colpevole che sta connotando questi due mesi non tiene in considerazione una cosa, tanto semplice e scontata, eppure la stiamo dimenticando.
Tutti si sono fatti trovare impreparati. Indistintamente, tutti.
I governi, le istituzioni sanitarie, le amministrazioni locali, le collettività, i nuclei familiari, i singoli. Ripetere come ormai si sente periodicamente dappertutto varie volte al giorno la domanda su come e perché si è sottovalutato il pericolo è un esercizio di stile che forse può servire a narcotizzare la coscienza, ma totalmente scollegato dalla realtà. Nessuno ci avrebbe creduto senza prima viverlo su di sé. E' semplicemente umano, come dimostrano società anche teoricamente più razionali e organizzate di quella italiana, come l'inglese o la francese, e che nemmeno hanno fatto tesoro delle due settimane di vantaggio dovuto al nostro esempio per rendersi conto del Matrix a cui tutti eravamo collegati.

Ma l'essersi fatti trovare, umanamente, impreparati all'inizio, e soprattutto quando poi la tragedia è deflagrata in tutta la sua crudezza, e nel corso di questi 60 giorni quando – come insegnava la saggezza dei nonni - “il morto ci ha insegnato a piangerlo”, non può più essere la condizione di partenza umanamente accettabile di qualsiasi situazione.
Eppure è quello che si sta ripetendo. Tanto nella società, dove a 12 giorni dall'open up anche solo parziale del paese, non c'è ancora un piano chiaro su chi e come potrà uscire, e soprattutto in che maniera potrà essere controllata strutturalmente la situazione tanto nei movimenti, quanto nell'espansione del tracciamento dei contagiati asintomatici attraverso i test fuori dalle corsi ospedaliere.
Quanto l'impreparazione è a ruota l'unico tratto distintivo anche nel calcio. Che da subito si fece portare a spasso tanto in Italia, con il circo sulle porte aperte e chiuse, quanto in Europa, con l'Uefa completamente sconnessa dalla realtà che l'11 marzo si faceva dettare la linea dal rifiuto del Getafe e della Roma a giocare - prima di decidersi a rinviare il turno di Europa League; salvo far trapelare di non avere minimamente preso in considerazione l'idea di posporre alcun turno – letteralmente circa 3 ore prima che l'Oms dichiarasse la pandemia globale.
Sono passati 60 giorni, e tranne il davvero ineluttabile rinvio di Euro2020, per il resto il calcio né in Italia né in Europa ha deciso ancora nulla. E come potrebbe, si potrebbe obiettare, se le decisioni devono prima essere prese dai governi e il calcio può solo adeguarsi.
Sicuramente. Ma tanto in Italia quanto in Europa la situazione ad oggi è la stessa situazione che di 40 giorni fa, con le stesse problematiche: imbuto strettissimo temporale in cui fare disputare quel che resta della stagione; il nodo dei contratti da estendere oltre il 30 giugno; la crisi finanziaria da alleviare con l'alleggerimento dei contratti.
Si poteva non prendere una decisione. Ma si potevano approntare dei piani alternativi per farsi trovare pronti alle differenti evenienze: in caso di ripresa a inizio maggio, o a inizio giugno, o da fine giugno in poi.
Nulla. Non c'è letteralmente nessuna alternativa di vita. L'unica cosa concreta, questa sì, è il protocollo medico per la ripresa. Con un piccolo dettaglio: la fattività logistica non ha ancora assolutamente nessun riscontro. E in più, nessuno vuole metterci la faccia nel prendersi la responsabilità di dire agli italiani: “Scusate, ma dobbiamo riservare 2000 test ogni 4 giorni per il mondo del calcio, anche se ci rendiamo conto che ci sono medici che crepano in corsia aspettando che gli facciano un test”.
Questo è. E dalle parole di ministro e viceministro della Salute, è evidente che nel governo non se lo sognano proprio di dire una cosa simile agli italiani. Così come dalle parole di Gravina, è altrettanto evidente che debba essere il governo a prendersi la responsabilità di staccare la spina, unica cosa al momento praticabile, se davvero si vuole mettere tutto in moto già a maggio-giugno.

Due mesi sono passati. E' cambiato tutto. Ma non possiamo più permetterci che rimanga uguale solo la capacità di farsi cogliere impreparati.

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