Menu Serie ASerie BSerie CCalcio EsteroFormazioniCalendari
Eventi LiveCalciomercato H24MobileNetworkRedazioneContatti
Canali Serie A atalantabolognacagliariempolifiorentinafrosinonegenoahellas veronainterjuventuslazioleccemilanmonzanapoliromasalernitanasassuolotorinoudinese
Canali altre squadre alessandriaascoliavellinobaribeneventobresciacasertanacesenalatinalivornonocerinapalermoparmaperugiapescarapordenonepotenzaregginasampdoriaternanaturrisvenezia
Altri canali serie bserie cchampions leaguefantacalcionazionalipodcaststatistichestazione di sosta
tmw / fiorentina / La Giovane Italia
Pro Patria Vicenza 2-0, l'intervista di LGI a Mattia Del FaveroTUTTO mercato WEB
© foto di Paolo Baratto/Grigionline.com
lunedì 6 febbraio 2023, 09:30La Giovane Italia
di La Giovane Italia

Pro Patria Vicenza 2-0, l'intervista di LGI a Mattia Del Favero

Dopo 2 anni complicati, il portiere cresciuto nella Juventus (e inserito in 5 edizioni dell’almanacco) si sta riscattando alla Pro Patria.
La ricerca della felicità. Se dovessimo abbinare un film alla carriera di Mattia Del Favero, sceglieremmo sicuramente la pellicola diretta da Gabriele Muccino con protagonista Will Smith. Perché può sembrare banale, ma la felicità è l’unico, vero obiettivo che l’estremo difensore nato a Firenze e cresciuto a Torino ha sempre inseguito. È il motivo per cui da bambino ha deciso di lasciare le giovanili dei viola, che per un toscano come lui avevano rappresentato fin dal primo giorno un sogno ad occhi aperti. È la priorità che ha messo davanti a tutto, carriera calcistica compresa. È il traguardo a breve e a lungo termine che si è prefissato anche nella sua nuova avventura alla Pro Patria, definita senza troppi giri di parole, come piace a lui, un passo fondamentale della sua carriera. Da cui arrivano notizie positive dal campionato, come la vittoria maturata contro il Vicenza e un dato interessante quale la terza miglior difesa del girone, dietro solo a Feralpisalò e Pordenone.

Ciao Mattia. Innanzitutto complimenti per la stagione che state disputando. La posizione che occupate attualmente e i risultati che avete raccolto fino ad ora sono in linea con gli obiettivi che vi eravate prefissati? 

“Guarda, ti rispondo sinceramente. Quando ho deciso di venire qui, non ho pensato a obiettivi particolari a livello di piazzamento. Non volevo pormi limiti né fissare traguardi troppo ambiziosi. Sono arrivato consapevole solo di un aspetto: che tipo di realtà fosse quella in cui stavo per andare ad inserirmi. Mi spiego meglio. Nei due anni di Serie C che ho fatto prima di approdare qui – cioè Juventus Under 23 e Piacenza – ho capito cosa significasse giocare contro la Pro Patria: affrontare un gruppo solido e una squadra che in gergo si definisce “fastidiosa”. Questo ero convinto di trovare e questo effettivamente ho trovato. A inizio anno nessuno di noi si è posto un obiettivo preciso. Eravamo ovviamente consapevoli del fatto che ci fossero club di un livello superiore al nostro e che quindi sarebbe stato un girone molto complicato, però abbiamo deciso di affrontare la stagione concentrandoci su noi stessi. E i risultati raccolti fino ad ora credo siano proprio il frutto di questo atteggiamento, oltreché ovviamente della solidità del gruppo, come accennavo prima. È raro in Serie C trovare una rosa composta da calciatori che giocano insieme da tanti anni; spesso, infatti, le società di questa categoria cambiano molto da una stagione all’altra. La Pro Patria, invece, è riuscita a creare uno zoccolo duro che rappresenta la vera forza della squadra e che ha consentito di raggiungere risultati migliori di quelli che ci si aspettava sulla carta, sopperendo in alcuni casi al gap che c’è con altre corazzate del girone. Ora stiamo facendo bene e vogliamo continuare su questa strada, consapevoli comunque che abbiamo ancora ampi margini di miglioramento”.

Abbiamo parlato di obiettivi di squadra. A livello personale, invece, quanto conta per te quest’anno, soprattutto alla luce delle ultime due (sfortunate) stagioni? 

“Tantissimo. Non l’ho mai nascosto. Vengo da esperienze complicate a causa di problemi fisici che mi porto dietro ormai da anni. Faccio addirittura fatica a ricordarmi quando sono iniziati [ride]. Sicuramente ritrovarmi in una squadra così unita, che mi ha accolto alla grande e mi ha fatto sentire subito parte integrante del gruppo, quasi come se giocassi qui da sempre, ha aiutato parecchio. Mi ha dato fiducia e mi ha spronato. Era l’ambiente di cui avevo bisogno”.  

Ora lasciamo da parte il presente e riavvolgiamo il nastro della tua carriera. Muovi i tuoi primi passi nella Scuola Calcio Desolati e a soli 8 anni passi alla Fiorentina. Non credo sia scontato che a quell’età un bambino venga notato dalla squadra più importante della propria città e della propria regione. Cosa ti ricordi di quel momento?

“Mi ricordo l’orgoglio di raccontarlo ai miei amici e ai miei compagni di classe. Non sono mai stato un grande tifoso e negli anni questa caratteristica si è accentuata; al di fuori del calcio giocato, quindi, seguo poco. Però sai, da bambino guardavo la Fiorentina come un sogno. Era la squadra della mia città e la società più importante a cui potessi ambire. Il fatto che il mio nome fosse associato ai viola era una sensazione fantastica, che non posso dimenticare”.

L’avventura alla Fiorentina dura poco e la tua carriera prosegue nella Sestese e al Prato. Come hai vissuto quelle stagioni? Perché da un lato sono state quelle che ti hanno portato alla Juventus, ma dall’altro sono stati gli anni successivi alla separazione – immagino non facile – dai viola…

“Ti dico una cosa che non è mai uscita da nessuna parte. Io ho giocato con la Fiorentina per 3 stagioni. Poi, a 12 anni, per diversi motivi, mi resi conto che non ero felice e che il calcio non rappresentava più quella valvola di sfogo e di divertimento che doveva essere. Andai quindi dai miei genitori, spiegai loro la situazione e dissi che preferivo lasciare la Fiorentina e concentrarmi sulla scuola. Tante volte ho letto che alla Sestese e al Prato io sarei stato animato da un “senso di rivalsa” nei confronti dei viola che mi avevano scartato, ma non è così. Per me semplicemente si chiudeva un capitolo e se ne apriva un altro. Avevo bisogno di tornare ad affrontare ogni giorno col sorriso e alla Fiorentina, per varie ragioni, non riuscivo più a farlo. Decisi quindi di andarmene, ma non abbandonai il calcio; scelsi semplicemente una situazione più “tranquilla”, che mi consentiva di rimanere vicino a casa e di tornare a divertirmi, l’unico obiettivo che un bambino di 12 anni che gioca a pallone dovrebbe avere. Quello che successe dopo non l’avevo messo in conto [ride]”. 

Cioè? 

“Partita dopo partita e prestazione dopo prestazione cominciarono ad arrivare alcune chiamate da parte di club professionistici. Mi trasferii a Prato, feci bene e – di fatto – rientrai nel giro. A quel punto capii che la situazione si stava facendo di nuovo seria, ma è stato tutto una conseguenza del divertimento. Alla Sestese e al Prato tornai a divertirmi e da lì (ri)cominciò tutto. Ora che sono cresciuto mi rendo conto di quanto il mio periodo di infelicità nell’ultimo anno alla Fiorentina probabilmente è stato brutto anche per i miei genitori. Perché da bambino ovviamente non ci pensi, ma per portarti ogni volta alle partite e agli allenamenti tuo padre e tua madre fanno dei sacrifici, mettono da parte i propri bisogni, tolgono tempo ai propri hobby e al proprio lavoro… Se poi ti vedono pure senza sorriso, pensa quanto può essere frustrante. Fortunatamente la Sestese mi fece tornare la passione che avevo perso alla Fiorentina. E ci tengo a sottolineare che non fu colpa dei viola: si è trattato semplicemente di un periodo in cui non ero felice e non mi divertivo più a giocare”.

Adesso che sei un professionista e il calcio è il tuo lavoro, che rapporto hai con il divertimento?

“Quello di prima. È rimasto una componente fondamentale. Se non avessi passione per il calcio e se giocare non mi rendesse felice, avrei già smesso da anni. Soprattutto alla luce delle brutte esperienze che ho vissuto. Passione e divertimento sono stati gli ingredienti che mi hanno sempre dato la forza di superare gli infortuni e di continuare a lottare, sia adesso che quando ero ragazzo. Ti racconto una cosa: c’è stato un periodo in cui, a causa dell’infortunio alla spalla, se mi addormentavo nella posizione sbagliata, al mattino non riuscivo a muoverla. Capisci bene che in queste condizioni, se non hai una motivazione forte o la spensieratezza che ti fa vedere l’infortunio come parte del gioco, dove trovi le energie per pensare: «Tra un mese finisco la riabilitazione e poi torno in campo»? Io ce l’ho fatta solo perché sono riuscito a ritrovare la passione e la felicità, ma non è così scontato come si pensa e non tutti reagiscono allo stesso modo. Un conto sono le frasi fatte del tipo «Non mollare» o «Non abbatterti: sei giovane e stai vivendo gli anni migliori della tua vita», un altro è trovare la forza per affrontare situazioni che appaiono impossibili da superare. E quella forza, per me, è sempre stata la felicità. E continuo a rendermene conto oggi, anche nelle piccole cose. Se ad esempio ripenso a quello che ho passato nelle ultime due stagioni, mi sembra assurdo che durante queste vacanze di Natale mi siano bastati 5 giorni lontano dal campo per sentire la mancanza del pallone. Per farti capire quanto la mia voglia, la mia passione e la gioia di giocare siano forti. Se lo dicessi al Mattia Del Favero di un anno fa – cioè quello dell’ultimo infortunio – probabilmente mi darebbe del pazzo e mi direbbe: «Figurati se per una settimana di pausa ti può mancare il calcio». Invece ti assicuro che è stato così”.

Torniamo alla tua carriera nel settore giovanile. Mentre giochi a Prato, nella stagione che precede il passaggio alla Juventus, ricevi la tua prima convocazione in Nazionale e fai l’esordio contro la Germania. Niente male come debutto…

“È un ricordo indimenticabile. Ho avuto la fortuna di tornare altre volte in Nazionale, ma è ovvio che la prima sia speciale. Tra l’altro ero uno dei pochissimi (se non l’unico) che veniva da una società di Serie C, per cui mi ricordo perfettamente che si era trattata di un’enorme soddisfazione. Così come mi ricordo le prese in giro dei compagni che, per le mie origini toscane, mi mettevano il sale sul pane perché dicevano che fosse insipido [ride]. Sono tutte istantanee che porterò sempre con me”.

Poi il salto nel vivaio bianconero. Com’è stato l’impatto con il “mondo Juve”, sia a livello di calcio giocato – dato che vieni inserito subito nel gruppo dei ’97 da sotto età – che di ambiente?

“Innanzitutto ti dico che hai usato l’espressione corretta: “mondo Juve”. Spesso si pensa alla Juventus come ad un vero e proprio microcosmo per tutto ciò che mette a disposizione di ogni ragazzo, per l’organizzazione, per il comportamento che richiede a tutti, per il livello tecnico… Bene: confermo tutto. La Juventus è quasi uno stile di vita per come ti coinvolge a 360°. Ovviamente per me non è stato facile, perché a 15 anni ho lasciato genitori e amici e mi sono trasferito a Torino. Mi sono sentito letteralmente catapultato in una nuova dimensione. Se però da un lato c’era il dispiacere di lasciare casa e affetti, dall’altro mi ricordo benissimo la soddisfazione e la voglia di mettermi in gioco, sia in campo che fuori (perché ovviamente avrei iniziato a vivere da solo e ad avere maggiori responsabilità). L’impatto non può che essere forte, però ti rendi conto subito di quanto ti faccia crescere come giocatore e come persona una realtà del genere. Sei seguito sotto ogni punto di vista e l’obiettivo di tutti i membri dello staff è duplice: formare prima di tutto dei ragazzi (e solo dopo dei calciatori) e metterli nelle migliori condizioni possibili affinché riescano ad esprimere le proprie qualità in campo. Per quanto riguarda il fatto di giocare sotto età, vale lo stesso discorso che facevo a livello di ambiente: il salto l’ho sentito molto, anche perché l’annata dei ’97 è stata per quasi tutti i club una delle migliori in assoluto (tant’è che si tratta di quella che ha prodotto il maggior numero di calciatori che oggi militano in A e B), però mi ha fatto crescere tantissimo”.  


La tua prima stagione con i bianconeri coincide con la tua prima presenza sull’almanacco de La Giovane Italia. Cos’hai provato quando ti hanno comunicato che eri stato inserito in un libro?

“Fu una bella emozione. Avevo solo 14 anni e reagii come immagino farebbe un qualunque ragazzino di quell’età a cui viene comunicata una notizia del genere. «Sono su un libro? Wow, forte!». Ero super gasato. Ovviamente presi il libro e lo misi in bella mostra in camera mia, così come ho fatto poi per le edizioni successive. Le conservo ancora tutte a Firenze, a casa dei miei”.

Giustamente hai parlato di “edizioni successive” perché sei stato inserito sul nostro almanacco per 5 volte consecutive. C’è qualcosa nei vari anni che ti fece particolarmente piacere leggere?

“Mi ricordo che ogni volta rimanevo colpito dal “Dicono di lui”. Non solo per le belle parole che c’erano scritte, ma soprattutto – e mi riferisco in particolare ai primi anni – per il ruolo della persona che le pronunciava. Quando sei un ragazzino, infatti, vedi i Responsabili di Settore Giovanile, i Direttori Sportivi e le altre figure di questo tipo come persone lontanissime da te. Ti capita raramente di incontrarle sul campo, ti rivolgi a loro con imbarazzo e dando del “lei”… Insomma, percepisci una distanza enorme. Quando poi leggi il loro nome sulla tua pagina sei allibito: «Ma davvero mi conosce così bene e pensa questo di me?». Poi ovviamente l’altra voce dell’almanacco che rimane impressa è il “Chi ci ricorda”. I paragoni sono sempre un’emozione forte”.

Nel 2014/15, il tuo secondo anno con i bianconeri, disputi il campionato Under 17 con i tuoi pari età, ma nel frattempo ti alleni stabilmente in Primavera (con la quale debutti anche nel finale di campionato). Quanto è stata importante quella stagione nella tua carriera?

“Ah beh, non si può nemmeno calcolare. Sono stato costretto ad alzare notevolmente il livello delle mie prestazioni. Anche perché essendo io un ’98, avevo ben 2 anni in meno rispetto ai ’96 che giocavano in Primavera; se a questo aggiungi il fatto che in Under 19 possono essere schierati anche i fuoriquota, io mi ritrovavo ad allenarmi con ragazzi che avevano fino a 3 anni in più. Per non parlare poi dell’aspetto mentale: quando arrivi in Primavera, infatti, ti rendi conto forse per la prima volta che la tua passione può diventare qualcosa di più e nella testa ti scatta qualcosa. È come se realizzassi definitivamente che puoi diventare un calciatore. Ora che ci ripenso non ho dubbi: il 2014/15 è stato un anno di svolta per la mia carriera”. 

In quello stesso anno, in occasione dell’ultima giornata di campionato, vieni convocato in prima squadra. Mi racconti quel giorno?

“È stato pazzesco. C’erano tutti i miei idoli. In primis ovviamente Buffon, ma anche gli altri erano calciatori che fino a pochi anni prima guardavo in tv o usavo alla PlayStation. Tra l’altro allo stadio c’era un clima incredibile: eravamo in casa del Verona ed era tutto esaurito. Toni, che era il capitano, si stava giocando il titolo di capocannoniere con Icardi e Tevez e tutta la città era impazzita. La partita fu splendida, vennero segnati dei gol bellissimi… Insomma, tutto fantastico”.

Hai citato Buffon. È vero che da quando hai cominciato ad allenarti con i grandi, nonostante avessi nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, è stato il primo a darti dei consigli?

“È vero, ma in realtà sono stati tutti incredibilmente disponibili. Storari, Pinsoglio, Neto, Perin Szczesny… tutti gentilissimi fin dall’inizio. Sono io che ci ho messo un po’ a relazionarmi con loro [ride]. A me non sembrava possibile allenarmi fianco a fianco con il giocatore a cui avevo visto alzare la Coppa del Mondo in tv. Ogni volta che mi diceva «Bravo Matti» io pensavo che non fosse reale”. 

Parallelamente al percorso con la Juve prosegue il tuo cammino in Nazionale, con la quale giochi dall’Under 15 all’Under 21.  C’è un ricordo, una partita, un compagno, un’esperienza con la maglia azzurra alla quale ti senti particolarmente legato?

“Ti direi il biennio di Under 18 e Under 19, sia perché ormai i convocati erano sempre gli stessi e il gruppo si era consolidato, sia perché ci sentivamo un po’ screditati da stampa e addetti ai lavori. E questo ci ha unito, rafforzando il nostro legame. Come accennavo prima, l’annata dei ’97 era stata clamorosa e quella dei ’99 sembrava destinata a seguirne le orme. Noi eravamo la selezione di mezzo e nessuno ci teneva in grande considerazione. Grazie al CT Baronio abbiamo creato un gruppo fantastico, io stavo bene fisicamente, mi sentivo coinvolto e importante per la squadra”.

Nel 2018/19 la Juve è la prima (e tuttora l’unica) a creare una squadra Under 23, di cui tu sei il titolare. Praticamente continui il tuo percorso nel vivaio bianconero, ma di fatto è la tua prima stagione da professionista. Come l’hai vissuta? 

“È stata una stagione un po’ particolare prima ancora che cominciasse. Tutti sapevamo che probabilmente avremmo giocato in Serie C, ma l’ufficialità non arrivava, in società nessuno ne parlava apertamente e noi non avevamo idea di cosa ci attendesse. A posteriori, comunque, posso dire (e credo di parlare a nome di tutti) che è stato uno step di crescita fondamentale. L’unica cosa che abbiamo pagato un po’ è stata l’età: eravamo tutti tra i 23 e i 19 anni, per cui non avevamo giocatori navigati, che in Serie C sono fondamentali. Puoi immaginare quanto sia stata tosta. Già dalla stagione successiva, però, ci siamo resi conto della fortuna che avevamo avuto a vivere un’esperienza simile. Giusto per farti due esempi: avevamo assaggiato il calcio professionista rimanendo “in famiglia”, senza essere catapultati in una piazza che non conoscevamo, e avevamo provato sulla nostra pelle cosa significa giocare in stadi con 8 mila persone. Io lo vedo ora in alcuni miei compagni più giovani: passare dalla Primavera ad uno spogliatoio di grandi, dove ci sono calciatori esperti e molto più anziani di te, oppure da un centro sportivo dove giocano le giovanili a veri e propri stadi con i tifosi attaccati al campo, non è per niente semplice. Ma anche senza il bisogno di guardare gli altri, mi basta ripensare al mio anno al Piacenza, il primo lontano da Torino: non riesco neanche a immaginare come sarebbe stato se non avessi avuto alle spalle una stagione di Serie C con la Juventus Under 23”.

Riesci invece ad immaginare il tuo futuro? A breve o a lungo termine, in campo o fuori, cosa vedi? A cosa punti?

“A breve termine vorrei continuare a stare bene, così da poter dire di essere tornato il vero Mattia Del Favero, quello precedente agli infortuni. A lungo termine vorrei semplicemente divertirmi, portando avanti nel modo migliore possibile e per più tempo possibile un lavoro che di fatto è un gioco. Senza perdere mai il sorriso e la passione”.

Una risposta che parte dalla carriera calcistica, ma che sembra andare oltre, sfociando nella vita personale. Perché alla fine entrambe, quando si parla di futuro, sono accomunate da un unico desiderio: la ricerca della felicità.