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Foden e Bellingham, 2000 e 2003: giovanissimi e senza ruolo. In Italia non giocherebbero
Tutti aspettavano Erling Braut Haaland e non è stata la sua partita. Né all’andata, né al ritorno: il Manchester City è riuscito nell’incredibile missione di fermare il Terminator norvegese, il calciatore più atteso e che s’è scoperto essere umano. Non gli era mai accaduto da quando gioca in Europa. Fa pensare che in fin dei conti anche Stones sappia marcare. Non è stata la sua serata, ma il 2000 di Leeds avrà parecchio tempo per riscattarsi, ammesso che debba davvero farlo. In compenso, il confronto tra i Citizens di Guardiola e il Borussia Dortmund ha rappresentato comunque l’ennesima vetrina per la meglio gioventù del calcio continentale. Hanno brillato due talenti già ben noti alle cronache del pallone. Accomunati dalla nazionalità, entrambi inglesi. E dalla verdissima età, anche se uno è del 2000 e l’altro del 2003.
Phil Foden e Jude Bellingham. Attenti a quei due, del resto si sapeva già. Il primo ha segnato il gol decisivo, il secondo quello d’apertura che ha tenuto vive le speranze del BVB. S’è rifatto con gli interessi dell’ingiustizia patita all’Etihad, pur se alla fine i gialloneri hanno dovuto capitolare. Phil e Jude, protagonisti del domani di quell’Inghilterra che sogna di riportare il football back home. Anzi dell’oggi di un movimento che, magari ispirato proprio dalla presenza di Pep oltremanica, ci mostra quel che il calcio può essere. E ci pone parecchi interrogativi. Sono giocatori che sembrano dei prototipi.
Non hanno un vero ruolo. Dove li metti in campo? È la prima domanda che viene in mente guardandoli giocare. Tanto talento offensivo, ma possono ricoprire tutti i ruoli del centrocampo. Pure dell’attacco, chissà della difesa. Non hanno una collocazione precisa, sfuggono agli schemi. Sono 10 e 8, ma anche 4. Soprattutto il buon Jude. È una questione che si era già proposta, sempre in Inghilterra, quando Lampard lanciava un giovanissimo Mason Mount, altro diamante non più tanto grezzo del calcio in UK, talmente consapevole di tutto questo da dichiarare di non sapere quale fosse il suo ruolo e che alla fine poco importa. Calciatori come Foden e Bellingham sono speciali ma non sono casi unici a livello europeo: rappresentano l’evoluzione di questo sport. Meno legato alla tattica e agli schemi, più alla qualità dei diretti protagonisti. “Il calcio appartiene ai giocatori”, dice Guardiola dopo essersi tolto un pensiero non da poco. È un concetto che in Italia ha espresso poco tempo fa Allegri, ma siamo troppo interessati a dividere i giochisti e i risultati, senza accorgerci che il pallone è già andato oltre questa rigidità e che è una questione di valore tecnico. Poi c’è il fattore età.
Un 2000 e un 2003. In Italia che spazio avrebbero? Migliori in campo di un quarto di finale di Champions League. Sembrano cronache marziane, viste dal Bel Paese. Nel nostro campionato, l’unico calciatore del 2000 ad aver superato il muro dei 1.800 minuti disputati (cioè due terzi del campionato) è Dusan Vlahovic. Gioca nella Fiorentina, quindicesima in classifica. Dei 2003 non ne parliamo neanche. Forse Bellingham è un’eccezione, ma in Serie A l’unico giocatore di quell’annata a essere sceso in campo è Daan Dierckx. 90 minuti col Parma penultimo. Non è esterofilia, l’obiettivo non è sottolineare che lì fuori funzioni tutto bene e qui tutto male. Ci sono milioni di cose che non vanno, nel calcio oltre le Alpi. Il punto è che in Itala consideriamo quasi imberbi Federico Chiesa o Nicolò Barella, entrambi del ’97. Ieri al Signal Iduna Park sono scesi in campo sette giocatori più giovani di loro. Si parla, conviene essere ridondanti, di un quarto di finale di Champions League. Il punto è che in Italia ci focalizziamo su quisquilie e gabbie superate dall’evoluzione del gioco. Un esempio emblematico in casa Juve, ove da inizio stagione si discute di quale sia il ruolo di Dejan Kulusevski, classe 2000. E non si è soddisfatti di quel che fa perché non si riesce a irregimentarlo. Probabilmente Foden e Bellingham non troverebbero spazio in Serie A. Ma non perché non siano abbastanza talentuosi. Perché si devono fare le ossa. Perché devono trovare un ruolo. Il guaio è che rischiamo di rimanere maledettamente indietro.
Phil Foden e Jude Bellingham. Attenti a quei due, del resto si sapeva già. Il primo ha segnato il gol decisivo, il secondo quello d’apertura che ha tenuto vive le speranze del BVB. S’è rifatto con gli interessi dell’ingiustizia patita all’Etihad, pur se alla fine i gialloneri hanno dovuto capitolare. Phil e Jude, protagonisti del domani di quell’Inghilterra che sogna di riportare il football back home. Anzi dell’oggi di un movimento che, magari ispirato proprio dalla presenza di Pep oltremanica, ci mostra quel che il calcio può essere. E ci pone parecchi interrogativi. Sono giocatori che sembrano dei prototipi.
Non hanno un vero ruolo. Dove li metti in campo? È la prima domanda che viene in mente guardandoli giocare. Tanto talento offensivo, ma possono ricoprire tutti i ruoli del centrocampo. Pure dell’attacco, chissà della difesa. Non hanno una collocazione precisa, sfuggono agli schemi. Sono 10 e 8, ma anche 4. Soprattutto il buon Jude. È una questione che si era già proposta, sempre in Inghilterra, quando Lampard lanciava un giovanissimo Mason Mount, altro diamante non più tanto grezzo del calcio in UK, talmente consapevole di tutto questo da dichiarare di non sapere quale fosse il suo ruolo e che alla fine poco importa. Calciatori come Foden e Bellingham sono speciali ma non sono casi unici a livello europeo: rappresentano l’evoluzione di questo sport. Meno legato alla tattica e agli schemi, più alla qualità dei diretti protagonisti. “Il calcio appartiene ai giocatori”, dice Guardiola dopo essersi tolto un pensiero non da poco. È un concetto che in Italia ha espresso poco tempo fa Allegri, ma siamo troppo interessati a dividere i giochisti e i risultati, senza accorgerci che il pallone è già andato oltre questa rigidità e che è una questione di valore tecnico. Poi c’è il fattore età.
Un 2000 e un 2003. In Italia che spazio avrebbero? Migliori in campo di un quarto di finale di Champions League. Sembrano cronache marziane, viste dal Bel Paese. Nel nostro campionato, l’unico calciatore del 2000 ad aver superato il muro dei 1.800 minuti disputati (cioè due terzi del campionato) è Dusan Vlahovic. Gioca nella Fiorentina, quindicesima in classifica. Dei 2003 non ne parliamo neanche. Forse Bellingham è un’eccezione, ma in Serie A l’unico giocatore di quell’annata a essere sceso in campo è Daan Dierckx. 90 minuti col Parma penultimo. Non è esterofilia, l’obiettivo non è sottolineare che lì fuori funzioni tutto bene e qui tutto male. Ci sono milioni di cose che non vanno, nel calcio oltre le Alpi. Il punto è che in Itala consideriamo quasi imberbi Federico Chiesa o Nicolò Barella, entrambi del ’97. Ieri al Signal Iduna Park sono scesi in campo sette giocatori più giovani di loro. Si parla, conviene essere ridondanti, di un quarto di finale di Champions League. Il punto è che in Italia ci focalizziamo su quisquilie e gabbie superate dall’evoluzione del gioco. Un esempio emblematico in casa Juve, ove da inizio stagione si discute di quale sia il ruolo di Dejan Kulusevski, classe 2000. E non si è soddisfatti di quel che fa perché non si riesce a irregimentarlo. Probabilmente Foden e Bellingham non troverebbero spazio in Serie A. Ma non perché non siano abbastanza talentuosi. Perché si devono fare le ossa. Perché devono trovare un ruolo. Il guaio è che rischiamo di rimanere maledettamente indietro.
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