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Comunque vada, con Tite il Brasile è tornato il Brasile. Storia di una metamorfosi nata guardando a storia, cultura e valoriTUTTO mercato WEB
venerdì 9 dicembre 2022, 04:02Editoriale
di Carlo Pizzigoni

Comunque vada, con Tite il Brasile è tornato il Brasile. Storia di una metamorfosi nata guardando a storia, cultura e valori

Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
Ve lo ricordate il Brasile?
Ve la ricordate la serata del Mineirazo? Fu la notte più vicina al Maracanazo (nulla può essere paragonato al Mondiale del 1950), quando nella Coppa casalinga, dopo una serie di partite modeste e giocate con una pressione insostenibile, la Seleçao cadde all’improvviso, seppellita da sette gol tedeschi che rimarranno nella storia.
E ve lo ricordate il Brasile nella competizione successiva, nella Copa America Centenario del 2016, eliminata nella fase di gruppi?
Il Brasile aveva smesso di essere il Brasile.
Né Scolari prima né Dunga, poi, erano stati in grado di risolvere con le rispettive ricette la situazione. La squadra non riusciva a trovare una chiara identità di gioco, e le esibizioni di Neymar non riuscivano a vincolarsi col resto dello spettacolo, molto spesso poco edificante.
Anche fuori dal campo, con continue polemiche senza fine su come dovesse giocare la nazionale. I dibattiti, sempre troppo viziati da cliché e pregiudizi, si orientavano attorno alla sceneggiatura delle partite che avrebbe dovuto vivere la Seleçao. Il copione, che sia l'uno o l'altro, può aiutare a trovare soluzioni, ma non è la soluzione in sé.

Lo spirito, perennemente inquieto, del calcio brasuca era quello che doveva essere ritrovato.
Per questo momento così delicato si scelse un tecnico che, partito dal basso (prima squadra allenata, il Guarany di Garibaldi, bassifondi del campionato gaucho) era riuscito a riportare, sulla panchina del Corinthians, addirittura la Coppa Intercontinentale, oggi volgarmente ribattezzata Mondiale per Club, in Sudamerica, nel 2012, battendo in finale il Chelsea: nessuna squadra del Subcontinente ha continuato la sua tradizione.
Nel luglio del 2016, Tite prese in mano il Brasile con due sole certezze: che la nazionalità di uno dei migliori giocatori del pianeta era fortunatamente identica alla sua e che l’amarelinha, come è gergalmente nota la maglia del Brasile, è incredibilmente pesante. 
Altre certezze? Nessun attaccante dominante, molti giovani talenti partiti per paesi di seconda o terza fascia in termini competitivi (Cina, Ucraina, Russia, e altre siberie calcistiche…). Poi più nulla, visto che stava anche svanendo un po’ il fascino del Brasile.
Alla Granja Comary, stupendo quartier generale della Seleçao, poco lontano dalla città più incredibile del Mondo, Rio de Janeiro, Tite aveva portato tante idee, e soprattutto valori. Umani, quasi spirituali.

Etichettato in Europa, e da alcuni columnist brasiliani, come tecnico filo-europeo, che non si capisce mai esattamente cosa voglia dire, specie nel calcio del terzo millennio, ha in diverse occasioni manifestato il suo modello, smontando quindi certe etichette: "Appartengo a quella scuola di gioco fatta di appoggi, triangolazioni, cambi di gioco e creatività nell'ultimo terzo di campo. Non mi dispiace avere una squadra con meno forza e più mobilità, con transizioni agili e veloci. Poi, in Brasile, c'è un'altra scuola che è più lontana da me..... Quello dell'agonismo, dell'avanzamento per vincere il rimbalzo.... Mi diverto di più con il dominio, non solo con il contropiede... Mi piace giocare con la palla.”


L'uomo di Caxias do Sul indica il Brasile dell'82 come la squadra che più lo ha segnato e che più ha influenzato la sua carriera, per contestualizzare il suo ideale calcistico. Semplicemente, la sua carriera dimostra che questa idea non è né così estrema né, soprattutto, perché quando ha dovuto cambiare o variare, lo ha fatto. E con evidente successo, costruendo soprattutto una squadra con un'anima forte. Si diceva no? Il copione, ok, però prima gli uomini
Gli indizi su come voglia giocare diventano più chiari quando inizia con esperimenti, cercando di impostare Philippe Coutinho come interno, quindi con un giocatore di quel tipo insieme ad altri tre attaccanti. Un chiaro segnale che l'equilibrio, quella paradigmatica parola che in Italia ha un sottinteso abbastanza palese (leggi: aggiungiamo un difendente in più), poteva venire ricercato in altre forme. Che sono tecniche, ma anche psicologiche, storiche e culturali. Dice Tite, in una intervista a France Football: “ Per potere esprimere le sue qualità, soprattutto sotto pressione, il giocatore brasiliano deve respirare la gioia. Fa parte del suo DNA.” E deve attaccare.

Tite ritrova così il Brasile. Si qualifica facendo sostanzialmente filotto al Mondiale di Russia, dove scivola ai quarti contro il Belgio (meritando però molto di più), e vince la Copa America del 2019. La finale dello stesso torneo, l’anno scorso, persa contro l’Argentina di Messi non cambia il suo percorso, anzi: lo rafforza. Rafforza un gruppo sempre più unito e che in campo ha fatto, come vediamo qui in Qatar, un altro passo. Verso la porta. La squadra parte con un 4-2-3-1 ma diventa un 325 con il terzino, generalmente il sinistro (lo ha fatto Alex Sandro, lo ha fatto Alex Telles, lo fa Danilo), che si affianca all'unico “volante”, quasi sempre Casemiro, con Paqueta che si alza, a destra e va a formare un quintetto offensivo con Neymar nella stessa zona ma a sinistra e un tridente che recita Raphinha, Vini Jr e Richarlison. 

Fantasia che ritorna al potere. Soprattutto, il Brasile che ritorna il Brasile. Comunque vada, visto come era partita la storia, l’attuale CT della Seleçao, sangue italiano nelle vene (famiglia mantovana), ha già vinto. 
Obrigado Tite, il calcio la ringrazia.