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"Ancora non abbiamo fatto niente" e la psicologia di Roberto Mancini
Scrutare nella psiche di Roberto Mancini non è facile. Perché dietro la corazza dell'uomo sicuro, dell'uomo che sa quel che vuole, quello che è l'obiettivo, dietro al sorriso che piace, dietro alla voce pacata, c'è una profonda timidezza. C'è l'imbarazzo e pure l'orgoglio della responsabilità, non solo il tronfio orgoglio di essere il condottiero di una nazione. E per quanto anche ieri, dietro al ciuffo, con la giacca azzurro Bearzot, abbia provato a nasconderlo, in lui convivono due anime. Quella del giocatore, che dunque sa che al netto di tutte le sue idee, delle sue architetture tattiche, in campo vanno in undici e non chi non ha le scarpe coi tacchetti. Dunque merito a chi calcia il pallone in rete o a chi evita che gli altri lo facciano, che i riflettori se li prendano loro. Però dall'altra parte sa che c'è pure la sua mano, che c'è anche Mancini, in questa Italia. Che lo rispecchia molto, così come ricorda quella Sampdoria di cui è stato uno splendido e luminoso figlio. Un'Italia di provincia ma di quella italiana vera. Di quei borghi tirati a lucido, campanili che credon d'essere il centro del mondo e non fanno nulla per nasconderlo. Siamo nel paese dove uno per uno, altro che tutti per uno, è una filosofia oramai conclamata, sicché questa sua Italia di moschettieri, amici, abbracciati, senza scontri e senza sconti per gli altri, è una mosca bianca. Mancini intanto dice che "non abbiamo ancora fatto niente". Come se l'11 luglio non fosse domani. Come se l'Italia non fosse in finale. Come se svegliarsi da questa sbornia di gioia infinita, a Londra, o in Italia, come se togliersi questo sorriso stampato dal volto, adesso, fosse facile. Manca un passo, adesso. Uno solo.
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