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#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: Roa non giocava di sabato. E per l'Apocalisse rifiutò lo United

#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: Roa non giocava di sabato. E per l'Apocalisse rifiutò lo United
sabato 2 maggio 2020, 01:05Serie A
di Ivan Cardia
#iorestoacasa - Tuttomercatoweb.com propone ai suoi lettori delle storie di calcio per tenerci compagnia in queste giornate tra le mura domestiche

Ci sono i campioni, talentosi e determinati a tutto pur di raggiungere il loro risultato. Ci sono le meteore, eroi di un momento dimenticati e riscoperti in modo ciclico. Ci sono i calciatori sfortunati, frenati da uno stop di troppo o una scelta sbagliata. Ci sono i freak, gli strambi, personaggi fuori da ogni logica. E poi c’è Carlos Roa. Che raccoglie un po’ tutte queste caratteristiche. Tra le storie di calcio meno ordinarie, la sua è forse la più strana che potrete mai leggere.

Carlos Roa nasce il giorno di Ferragosto del 1969. Santa Fé, Argentina, è la città che gli dà i natali. Inizia a giocare a calcio da attaccante, e il gol in un certo senso gli resterà nel sangue, ma ben presto si sposta tra i pali. Da portiere esordisce, nel 1988, con la maglia del Racing Avellaneda. In questi anni non va tutto bene, soprattutto fuori dal campo: contrae la malaria dopo un viaggio in Africa e rischia la vita, ma si salva. Dopo 103 presenze con la maglia de La Academia, nel 1994 si trasferisce al Lanús, dove incontra Héctor Cúper, l’uomo che gli cambierà la vita. O almeno ci proverà, ma andiamo avanti con calma.

Il Lattuga vince la Copa CONMEBOL. Roa è soprannominato il Lechuga, perché, come vedremo per motivi religiosi, osserva una dieta strettamente vegana. I suoi sono gli anni migliori, almeno fino ad allora, del club granata, che solo di recente ha ripetuto un exploit analogo (e per la verità anche superiore). Trascinato, tra gli altri, dal talento di Ariel Ibagaza, il Lanús si piazza regolarmente ai vertici del campionato argentino. E nel 1996 trionfa in Copa CONMEBOL, antesignana dell’odierna Sudamericana ed equivalente latino della Coppa Uefa. Lo fa, curiosamente, vincendo contro il Santa Fe, squadra che porta il nome della città natale di Roa, ma è di Bogotà. Ad oggi, è l’unica volta che una squadra argentina ha alzato un trofeo in Colombia.

Portiere goleador. Contro un mito. Ricorderete che Roa a inizio carriera faceva l’attaccante, nel Gimnasia y Esgrima. Il gol tra i professionisti, però, lo segna da portiere. Su rigore, il 2 giugno 1997. In una partita di Clausura, il Lanús batte 3-1 il Vélez Sarsfield. Una delle marcature porta proprio la firma dell’estremo difensore. A inizio partita, infatti, il rigorista abituale, Mena, ha fallito dagli undici metri. Così, quando si ripresenta l’occasione, Cuper chiama proprio Roa dal dischetto. E lui non sbaglia. Di fronte non c’è un avversario qualunque, ma un certo José Luis Chilavert, paraguaiano simbolo dei portieri goleador.

Si va a Maiorca. Chiamato in Liga, l’hombre vertical porta alcuni dei suoi fedelissimi alle Baleari. Su tutti, Ibagaza e proprio Roa. Inizia il mito di Cúper eterno secondo, ma va detto che gli anni del tecnico argentino sono stati tra i migliori nella storia della formazione iberica, per la quale un terzo posto in campionato era, è e probabilmente sarà anche in futuro oro colato. E arrivare in fondo in Copa del Rey, pur perdendo, altrettanto. Nel primo anno dei nostri in terra di Spagna, il Maiorca arriva effettivamente a giocare la finale della coppa nazionale. Viene sconfitto dal Barça, ma Roa è ancora una volta protagonista. Segna di nuovo su rigore, questa volta nella lotteria finale che non premia la sua squadra. Il Maiorca perde, Roa non proprio: oltre a fare gol, neutralizza dal dischetto Celades, Rivaldo e Figo. Nomi pesanti. E il portiere argentino è uno dei migliori nel suo ruolo in Spagna, forse nel mondo.

In Francia diventa un eroe nazionale. Grazie alle buone prestazioni con la sua squadra di club, il nostro protagonista si guadagna la fiducia di Daniel Passerella, ct dell’Argentina ai mondiali del 1998: Roa è il portiere titolare della nazionale albiceleste. E non delude le aspettative: riesce a mantenere inviolata la porta nella fase a gironi. Avversari sì la Giamaica, ma anche il Giappone e soprattutto la Croazia di Boban. Agli ottavi di finale, l’apoteosi. Di fronte c’è dell’Inghilterra: la partita è quella della celebre espulsione di David Beckham, i tempi supplementari finiscono 2-2. Ai rigori c’è ancora lui, Carlos Roa, sugli scudi: neutralizza quello decisivo, dice no a David Batty dal dischetto, manda i tifosi inglesi back home senza, come al solito, nulla in mano. L’Argentina uscirà poi ai quarti contro l’Olanda, ma non certo per colpa di Roa. Che torna al Maiorca ancora più convinto dei suoi mezzi. O forse no.

Il trofeo Zamora. La stagione 1998/1999 è in assoluta la migliore della formazione di Cuper. Il Maiorca si vendica del Barcellona vincendo la Supercoppa di Spagna, chiude il campionato al terzo posto e si qualifica, per la prima volta nella sua storia, in Champions League. Il Lechuga è uno dei protagonisti indiscussi di questa annata trionfale. Subisce meno gol di tutti, vince il Trofeo Zamora, viene chiamato dai grandi club d’Europa. Ha il mondo tra le sue mani. E decide di fermarsi.

Un anno sabbatico. Dei tanti dettagli che arricchiscono una vita unica, c’è l’elemento religioso. Carlos Roa è un cristiano avventista del settimo giorno. Si tratta di un movimento ecclesiastico fondato nel 1863 in Maryland che, tra le sue varie regole, oltre al vegetarianismo di cui si è già scritto, indica nel sabato il settimo giorno della Bibbia, quello in cui è prescritto il riposo assoluto. Di sabato, però, si gioca a calcio. Roa vive da tempo questa contraddizione interna e spirituale. E nel 1999 ha almeno un’altra buona motivazione per fermarsi, andare a fare opere pie, distrarsi dal calcio.

Il mondo sta per finire. Non c’è tempo per lo United. Tra i punti principali della dottrina avventista vi è la venuta sulla Terra di Gesù Cristo allo scoccare del millennio. Semplificando, e senza addentrarci in dispute teologiche che non ci appartengono, l’Apocalisse. Roa l’aspetta per il 2000: il mondo sta per finire, che senso ha pensare al calcio? Così, oltre a chiedere alla sua società un anno di stop, oppone anche un clamoroso diniego. Il Manchester United, più preoccupato dell’eredità di Peter Schmeichel che del giudizio universale, si fa avanti per il nostro eroe. Che però dice no. Il mondo sta per finire, appunto. “È stata una decisione giusta sotto il profilo spirituale - ha confessato di recente - ma non da quello professionale. Però credevo che il mondo sarebbe finito”. Dato che non è successo, e per fortuna non c’è stato neanche il temutissimo Millenium Bug, sei mesi dopo il gran rifiuto opposto ai Red Devils (e noi siamo qui a chiederci se il soprannome della squadra di Old Trafford abbia avuto qualche peso in questa decisione), tocca rimettersi i guantoni.

Roa torna al Maiorca, ma non gioca il sabato. Ripresa la via delle Baleari, il portiere argentino è pronto a rimettersi in gioco e tra i pali. Detta una condizione ben precisa: non vuole giocare di sabato, non ne può più di trasgredire i dettami della sua fede. La società, incredibilmente, gli dice di sì e lo tessera nuovamente. Sarà per l’anno di stop forzato, sarà perché il Maiorca ha pur bisogno di qualcuno che giochi il sabato quando serve, Roa non replica i fasti degli anni passati, e finisce rapidamente in panchina (di domenica) alle spalle di Leo Franco, che nel frattempo si è anche preso il ruolo da titolare con l’Argentina. Idolo tra i tifosi, ma bisogna anche essere pratici. E nel 2002 saluta, per trasferirsi in Serie B spagnola, all’Albacete.

Il dramma. In Segunda Division, Roa torna protagonista. D’altra parte, le qualità le ha sempre avute. Nella stagione 2002-2003, l’Albacete ottiene la seconda promozione della sua storia, anche grazie alle parate del suo portiere argentino. Che però gioca tra i dolori, in questo caso fisici e non religiosi, soprattutto dai risvolti drammatici. Nel 2004, infatti, gli viene diagnosticato un tumore ai testicoli. Non è incurabile, ma Roa deve fermarsi di nuovo, sottoporsi a un intervento, fare chemioterapia, in una parola deve curarsi. Dato che la determinazione e la forza di volontà non gli sono mai mancate, vince questa durissima battaglia e riesce anche a tornare in campo. Dopo un lungo periodo di riabilitazione, lo fa dapprima allenandosi con alcuni club di Tercera Division, la Serie C spagnola. Poi rientra in patria, dove ricordano ancora il mondiale 1998: nel 2005 lo mette sotto contratto l’Olimpo de Bahía Blanca, che gioca in Primera Division. Roa disputa 18 partite e subisce 22 gol, indossa per cinque volte la fascia da capitano. Fa il suo, ma non basta: la squadra retrocede. E lui decide che questa volta può dire basta, il calcio giocato gli ha dato e tolto abbastanza. Inizia una nuova vita, ma forse ha più chiara la sua missione, perché decide di insegnare. Religione? No, a fare il portiere: è quello che gli è sempre riuscito meglio. Gira il mondo, va al River Plate e al Deportivo Guadalajara. Oggi è l’allenatore dei portieri dei San José Earthquakes, in MLS. La sua vocazione, in fin dei conti, era abbastanza chiara sin dall’inizio.

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