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Saponara ricorda Astori: "Eri un fratello maggiore. Ora saresti fiero di me"TUTTO mercato WEB
© foto di Federico De Luca
giovedì 4 marzo 2021, 16:27Primo Piano
di Lidia Vivaldi
per Acspezianews.it

Saponara ricorda Astori: "Eri un fratello maggiore. Ora saresti fiero di me"

Riccardo Saponara ha dedicato una commovente lettera all'ex compagno

Nel giorno in cui ricorre l'anniversario della scomparsa di Davide Astori, il suo compagno e amico Riccardo Saponara ha voluto rendergli un toccante saluto attraverso una lunga lettera, pubblicata su Cronachedispogliatoio.it:

«Ricky, hai visto? La La Land ha vinto l’Oscar. Chissà se lo merita davvero».

 «Non lo so Asto, ma appena esce in Italia ce lo dobbiamo vedere per forza. E lo giudichiamo senza pietà, come sempre».

 «Va bene Ricky, vediamo se davvero si è meritato l’Oscar».

Se penso alla vita che si ferma improvvisamente, che ti lascia senza fiato e si spezza senza chiedere il permesso, penso a questo momento. Perché Davide era arredatore di interni, esperto di cinema di nicchia, cuoco, amante delle serie tv, il classico tuttologo. Non c’era cosa che non conoscesse. Un tipo strano per il calcio, ma il mio tipo preferito. Come ripeteva sempre, lui si sentiva un designer che nel tempo libero diventava calciatore. Se penso alla vita che ti lascia senza lo spazio di recuperare il tempo perduto, penso a La La Land. Il film che avrei dovuto vedere con Asto, il film che ho visto da solo. Una sensazione di impotenza, di privazione. L’ho guardato tante volte in questi anni. Ha un significato speciale per me: per la relazione con la ragazza dell’epoca, per il significato in sé del film. Per quell’amico a cui avevo promesso un giudizio. Asto, sì, te lo posso dire: merita davvero l’Oscar.

Sono passati tre anni e mi manca la tua spalla. Eravamo seduti accanto in sala pranzo, e sai che spesso mi appoggiavo a te come si fa con un fratello maggiore. Mi hai dimostrato di essere una persona unica, un leader diverso. Come quella volta in cui ho firmato con la Fiorentina. Il Team Manager mi inserì nel gruppo WhatsApp ed ero soltanto un numero nella rubrica di molti, come accade quando si cambia squadra. Un +39 anonimo dentro a un cellulare. E invece no: tu chiedesti il mio contatto e mi scrivesti subito. «Per qualsiasi cosa, conta pure su di me». Parole semplici, ma che in quel momento mi hanno fatto sentire meno solo. Non ci conoscevamo, ma lo spavento che provavo nell’entrare in uno spogliatoio nuovo dopo tre anni a Empoli fu spazzato via in un secondo. Mi hai sempre dimostrato cosa significasse per te essere un amico, nei piccoli gesti quotidiani.

Sapevi motivare, sapevi riprendere, sapevi quando arrabbiarti, sapevi quando scherzare, e come farlo. Come quel sabato sera a Udine. Io, te e Marco (Sportiello, ndr) a cazzeggiare. Abbiamo parlato un po’ e poi vi siete messi a giocare alla Play. Maledetti. Lo sapevate che non mi piaceva giocarci, vi odiavo quando vi piazzavate davanti a quello schermo a urlare come pazzi incollati a FIFA.

Quindi me ne andai in camera.

La mattina scesi per fare colazione. Vidi le tue scarpe appoggiate fuori dalla camera di Marco. Se le sarà dimenticate lì ieri sera, pensai. Le tue posate, il tuo piatto e il tuo tovagliolo erano intatti. Strano, eri sempre il primo. Sarà stato un cameriere a cambiare il coperto. Non ci feci caso. Tornai in camera da Vincent Laurini, il mio compagno di stanza, per trascorrere le due ore prima del pranzo.

Sentii il rumore di un’ambulanza e mi affacciai alla finestra. I portelloni sul retro erano aperti, le luci lampeggiavano di un blu più freddo del solito. C’era anche Leo, il nostro magazziniere, che camminava avanti e indietro nel parcheggio, fumando una sigaretta. La stava consumando tre tiri alla volta, in modo nervoso. 

«Leo, che fai?».

«Davide è morto!».

Ci ritrovammo due giorni dopo al centro sportivo, dopo il lunedì trascorso a casa per cercare risposte. [...] Parlò anche Milan (Badelj, ndr), e lo fece con un discorso ancor più intimo rispetto a quello che pronunciò durante il funerale di Davide nella Chiesa di Santa Croce. Fu speciale anche il primo momento in cui ci guardammo tutti negli occhi. Milan ci esortò a continuare nel suo ricordo, a riprodurre quei comportamenti che ci aveva insegnato.

Quando incontro un mio ex compagno alla Fiorentina, nessuno dei due affronta l’argomento. Credo che abbiamo paura di come l’altro potrebbe reagire dentro di sé. Nell’abbraccio che ci diamo per salutarci, però, implicitamente ci mettiamo tutto. E ogni volta è speciale.

Le sue doti umane erano innate. Se stavi facendo un esercizio e accanto a te c’era un ragazzo straniero, che non conosceva la lingua, correva a rompere il silenzio inventandosi parole e facendolo sentire a suo agio. Poteva non parlare la lingua del compagno, ma non faceva alcuna differenza. Finiva tutto con una risata. Era il collante. Il leader che non ha bisogno dell’ufficialità della fascia per essere riconosciuto. In quella squadra così multietnica, lo spogliatoio non si era amalgamato automaticamente all’inizio. Il suo intervento fu fondamentale. E quando venne a mancare ci accorgemmo di quanto fosse pesante la sua presenza.

Mi hai lasciato una maturità superiore, quella con cui oggi vivo il calcio. Prima lo facevo con ansia: si vince, si vive bene. Si perde, la settimana sarà una merda. No. Grazie a te ho capito che il calcio è una parte della vita e che è proprio l’equilibrio fuori dal campo che ti porta ad affrontare con maggiore positività la tua professione. Mi hai mostrato che puoi essere calciatore, ma anche designer di interni, critico cinematografico e appassionato della materia più impensabile. La vita merita di essere vissuta con serenità, comunque vadano le cose. Ed è quello che voglio trasmettere agli altri. Sono una persona introversa, e ho capito che non c’è niente di male. Che vado bene così.

Sai, qualche giorno fa saresti stato fiero di me. Agudelo, un mio compagno che viene dal Sud America come tanti dei nostri amici alla Fiorentina, ha discusso con il mister durante l’allenamento. E si era offeso. Era stato escluso dalla partitella e, dopo qualche minuto, il preparatore gli ha restituito la casacca per tornare in campo. E lui no, non voleva. Se l’era presa. Allora gli ho detto: «Dai, non fare così. Torna in campo e basta». Con i tuoi modi, quelli giusti per non creare un precedente. Negli spogliatoi era ancora arrabbiato. Ma io non volevo che quel comportamento lo rovinasse. L’ho preso da parte: «Ascoltami. Sai che devi ritenerti fortunato? Il mister si è incazzato, ti ha escluso, e dovresti essere orgoglioso di lui. Cosa avresti voluto? Uno che non ti dice nulla, fa finta di niente, e la domenica ti lascia in panchina senza spiegazioni? Senza che tu possa capire i tuoi errori e migliorare? Devi ritenerti fortunato, lo avrei voluto incontrare anche io da giovane un allenatore così». Non mi ha risposto. Il giorno della partita ero nello spogliatoio e mi stavo lavando i denti, l’ho visto entrare: «Riccardo, avevi ragione. Ti devo ringraziare, oggi gioco titolare».

Grazie Asto, ti voglio bene.

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