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Cambiare e rinnovarsi, per rimanere competitivi. Il Porto di Sergio Conceicao è fedele alla storia, e proprio per questo rimane credibile ad alto livello.TUTTO mercato WEB
mercoledì 9 novembre 2022, 08:18Editoriale
di Carlo Pizzigoni

Cambiare e rinnovarsi, per rimanere competitivi. Il Porto di Sergio Conceicao è fedele alla storia, e proprio per questo rimane credibile ad alto livello.

Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
Il Benfica è sempre stato il Portogallo, calcisticamente parlando. Le coppe dei campioni degli anni sessanta, il mito Eusebio, le idee di Béla Guttmann, le letture calcistiche di Mário Coluna, l’imponenza dello stadio Da Luz, nel momento della costruzione, nel 1954, il più grande impianto d’Europa.
A livello internazionale il calcio portoghese erano quelle maglie biancorosse, l’elemento più riconoscibile di quel piccolo paese in un angolo di vecchio mondo, spesso nell’ombra, chiuso in se stesso nella dittatura salazarista.
Il Benfica è stato il Portogallo, fino al 17 aprile del 1982.
Il Paese si era finalmente aperto al mondo, aveva iniziato un cammino di democrazia dopo la celeberrima rivoluzione dei Garofani, il loro 25 aprile, e il mondo del calcio iniziava a trovare nuove dinamiche dentro e fuori dal campo.

L'elezione del Papa e il caso Bosman
Quel 17 aprile veniva eletto presidente del Porto il Papa. Meglio: quello che oggi viene chiamato così dopo aver inciso non solo nel futebol ma nella storia del calcio: il Papa nella declinazione calcistico-portoghese è Jorge Nuno Pinto da Costa, il presidente, l’allora e l’attuale presidente. Prima del suo arrivo, i bianco-blu avevano vinto sette campionati e otto Coppe di Portogallo nei loro 89 anni di storia. Da quel momento, gradualmente e parallelamente all'evoluzione dei tempi e delle circostanze più rilevanti, nasceva quello che è diventato uno dei progetti calcistici più straordinari del calcio europeo: la filosofia del Porto. Una filosofia figlia di visioni e lavoro che ha portato nel nord del Paese le stesse coppe dei campioni del Benfica, due, e in epoche differenti, nel 1987 con Artur Jorge in panchina e il tacco di Allah, Rabah Madjer, in campo, e nel 2004 con José Mourinho che non era ancora lo Special One e aveva già riempito la bacheca del club con un altro trofeo continentale, la Coppa UEFA, battendo in semifinale la Lazio e in finale il Celtic. Questi due straordinari exploit erano solo la punta dell’iceberg di un club che era entrato nella modernità prima degli altri, e aveva imposto un nuovo modo di vivere il mondo del calcio. Non avendo né capitali né appeal, l'accesso ai giocatori di alto livello non era così facile e si è deciso di inventarsi un modo diverso, e più ampio, in tutti i sensi, di guardare. Il grande segreto della politica dei trasferimenti del Porto è sempre stato quello di scegliere: giocatori e mercati. Dopo il caso Bosman, solo un anno dopo, i Dragoni divennero una Società per Azioni e con il passare degli anni iniziarono ad essere quotati in borsa, circostanze importanti e molto vicine nel tempo che, insieme ai successi sportivi. Giocatori mai considerati, mercati dove nessuno si inoltrava, il Porto ha mostrato al mondo che il calcio è davvero del mondo: ovunque si trovano buoni giocatori, basta saperli vedere, saperli inserirli in un sistema, e levarsi quell’altezzosità, quella puzza sotto il naso che accompagnava (e in alcuni casi ancora accompagna: guardiamoci attorno) l’europeo quando si approccia ad altre realtà calcistiche. E poi, il Porto sapeva vendere al momento giusto.
La ricerca evoluta non si è fermata ai calciatori, quelle che noi definimmo “scommesse” perché ancora alieni a quel modo di lavorare, ma sono andate anche sugli allenatori. Dal Mourinho, ex traduttore di Robson, con 9 presenze sulla panchina del Benfica e un ottimo inizio di stagione all’União Leiria, a profili che non hanno avuto fortuna coi bianco-blu, come per esempio Gigi Delneri. Il tecnico italiano fu seguito per diversi mesi e poi scelto per essere il successore proprio di José: le cose non andarono bene, e dopo pochi mesi ci fu la separazione. Ma non perché quei metodi e quella proposta calcistica era realmente sbagliata, ma arrivava in un momento sbagliato.


Sergio Conceicao: la scommessa vinta di Pinto da Costa
L’anno scorso discutendo con l’ex tecnico del Chievo gli dicevo che il suo 442 ad alto ritmo era la base dei recenti successi di Sérgio Conceição, l’ennesima “scommessa” vinta da Pinto da Costa, dato che è sempre lui, da quell’aprile del 1982 a governare il Porto. L’ex esterno visto brillare sulla fascia destra di diverse squadre italiane ha mostrato proprio al Porto di essere un grande allenatore: subentrato nel giugno del 2017 a Nuno Espirito Santo riporta già in quella stagione, dopo cinque anni di attesa, il titolo ai Dragoni. Lavora su una squadra che ha proprio come base il sistema di gioco preferito da Delneri, lo irrora con intensità ed è immediatamente credibile in uno spogliatoio che pareva poco ricettivo e con limitata mentalità. Ottiene risultati e continua, nella linearità di ricerca di quel tipo di calcio ad alta intensità, a cambiare uomini e stile. L’anno passato, in quanto a creatività, forse la sua stagione migliore, stabilendo un nuovo record di imbattibilità nel calcio portoghese. Sopravvissuto alla partenza di Luís Díaz a gennaio, ha costruito la squadra più dominante e creativa da quando è alla guida dei bianco-blu, integrando giovani che avevano solo bisogno di un impiego continuo, e quindi di fiducia. Questo è il segno di Sérgio Conceição e del Futebol Clube do Porto nella stagione 21/22, che non solo ha vinto il titolo ma ha anche aperto la strada per il futuro, non intaccato da un modesto inizio di stagione. E proprio grazie a queste basi si sta riprendendo. Al Dragão, la proposta ha assunto un altro significato. È impossibile comprendere la crescita delle prestazioni senza l'affermazione definitiva di giocatori dal profilo più tecnico, che cercano soluzioni collettive: nelle stagioni precedenti, la squadra dipendeva parecchio dai calci piazzati (manca il piede sinistro di Alex Telles) o da una vena individuale (Brahimi, Corona) per direzionare le partite. A causa delle caratteristiche della squadra, Sérgio Conceição ha cercato più la forza della tecnica che la tecnica della forza. E oggi il suo centrocampo non è più in linea ma è piena di elementi che ruotando offre soluzioni diverse: davanti a una difesa a 4 con due terzini sempre offensivamente coinvolti, giostrano il brasiliano Otavio ( naturalizzato portoghese e pronto per Qatar2022), il colombiano Matheus Uribe, il canadese Eustaquio, il serbo Grujic, che aveva steccato a Liverpool, Pepe, pescato al Gremio, Galeno, scoperto nel sottobosco della Primeira Liga. Alle spalle dell’iraniano Taremi e dell’ex Fluminense Evanilson
Gente da Porto, insomma.
Figli di una storia, molto calcistica, molto moderna.