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Negri: "Perugia? Essere bandiera era bello, ma desideravo altro"

Negri: "Perugia? Essere bandiera era bello, ma desideravo altro"TUTTO mercato WEB
lunedì 1 gennaio 2018, 12:362018
di Chiara Biondini
fonte N.231 Calcio2000 intervista di Paolo Bardelli
Il nuovo numero 232 di Calcio2000 esce il 10 gennaio

Nel numero 231 di Calcio2000 è stato protagonista di una lunga intervista, l’ex attaccante del Perugia e dei Rangers Glasgow, capocannoniere della Scottish Premier League nel 1997-1998 Marco Negri.
Il calcio degli ultimi anni è denso di parole e gesti eclatanti, l'attaccante milanese preferiva affidare ai silenzi le sue emozioni, i tifosi però non hanno faticato a capire un uomo che non baciava la maglia, ma sapeva stabilire una connessione profonda con la piazza. Negri ha girato l'Italia, Da Udine a Cosenza, in mezzo a tante storie c'è n’è una che più di tutte è rimasta nella memoria degli appassionati, quella all'estero: 1997, i giocatori nostrani avevano da poco iniziato ad affrontare l'avventura oltre Manica, Negri, reduce dalle ottime prestazioni con la casacca del Perugia, accettò l'offerta dei Rangers di Glasgow.
Impatto devastante sul campionato scozzese, 32 gol in 28 partite, 23 dei quali messi a segno in 10 match. Un campionato da record, lo sfizio di realizzare cinque gol in una partita e il titolo di capocannoniere. “I’m happy but I don’t smile”, diceva, le emozioni Marco preferisce custodirle, mentre intorno a lui tutto cambia. Un'ascesa verticale, bruscamente frenata da una pallina da squash che causò il distacco della retina. Niente è banale in questa storia, la gloria e la caduta, storia degna di un libro. E Negri ha fatto anche questo gol, scrivendo un volume che sta riscuotendo grande successo nel Regno Unito. Un “muto” che ha tanto da dire.
Marco Negri è rimasto nell'immaginario di molti: perché?
"Ho fatto vincere tanti al fantacalcio (ride, ndr), ma a parte le battute ho giocato in un campionato che non può essere paragonato a quelli principali, ma quello scozzese è un campionato affascinante, è là che è nato il calcio e i tifosi hanno tanto da insegnare a tutti, si applaude anche quando non si vince. Nell'immaginario collettivo sono collegato a questa passione, le scivolate, il gioco maschio, partite sempre in bilico. Dalla mia parte ci sono indubbiamente anche i numeri, dieci partite a segno consecutivamente, cinque gol in una sola partita".
Torniamo proprio a quel 23 agosto del '97: Rangers-Dundee United.
"Solo Ronaldo e pochi altri hanno segnato cinque gol in un match, non mi voglio certo paragonare a lui, ma è qualcosa di unico che mi rimarrà dentro per sempre”.
Prima della Scozia, Perugia. Cosa resta dei giorni biancorossi?
"Sono molto grato a quella città, sono riuscito a impormi all'attenzione del calcio italiano e a esordire in Serie A. In questi casi, è giusto essere grati a città e società, non torno spesso ma quando torno il riscontro è sempre bello, alla curva perugina un giocatore non rimane insensibile. Il primo anno abitavo in centro, poi sono andato a vivere in periferia. A parte il problema dei parcheggi (ride, ndr), adoravo vivere la città".
Tante maglie in carriera, mai sentita la mancanza di una ‘casa’?
"Il fatto di essere un professionista non può privare della spensieratezza di anni che non tornano. Il calciatore è un privilegiato, puoi conoscere tante città, l'Italia è bella al nord, al centro al sud, per me viaggiare non è mai stato un problema ma un'opportunità. Essere 'bandiera' è una bella cosa, ma il mio desiderio era un altro, anche l'esperienza all'estero è nata dalla voglia di nuove esperienze di vita".
Nessun gesto eclatante, ma i tifosi ti hanno sempre amato. Perché?
"Il mio ruolo aiutava: se fai gol, ti si apre un'autostrada nel cuore dei tifosi. A Cosenza ero conosciuto come 'u muto' perché non parlavo con la stampa, non si trattava di un vezzo ma di un modo per tenere i piedi per terra, però non ho mai sottovalutato il valore dei tifosi. Loro capiscono quando un giocatore gioca per la maglia, al di là delle chiacchiere e dei baci allo stemma: un uomo non si giudica dalle parole, ma dai fatti. Io ho sempre cercato di parlare con i fatti, non solo i gol, ma anche impegno. Attualmente vivo a Bologna, altra piazza con la quale ho un grande legame”.
Marco Negri è bravo anche con la penna, com’è nato il tuo libro?
"Questo è un altro bel gol. Ho detto spesso che non ho parlato per tutta la carriera perché volevo scrivere un libro originale che sorprendesse tutti, l'idea è nata da un giornalista scozzese. La mia storia, una carriera sulle montagne russe, meritava di essere raccontata, il giornalista però non ha potuto portare avanti il progetto e... Ho fatto da solo. Non sono uno scrittore, non lo sarò mai, ma le storie escono dalla penna da sole. È stato un piacevole tuffo nel mio passato e il libro è piaciuto ai lettori, la versione scozzese è stata candidata all'International Cross Book Awards, uno dei premi britannici più importanti, non ho vinto ma è stata comunque una piacevole sorpresa. Non è piaciuto solo al tifoso, ma anche i critici lo hanno apprezzato".
Il titolo inglese è 'Moody Blue', perché?
"Moody era il mio soprannome, significa 'lunatico', tutto è nato dopo la famosa partita con il Dundee United. Prima del match avevo discusso con un membro dello staff, durante i primi venti minuti l'assistente dell'allenatore avrebbe voluto sostituirmi e mi urlava addosso, io lo mando a quel paese e urlo 'cambiami pure', poi faccio tre gol in dieci minuti. E nel secondo tempo ne faccio altri due, completando la mia rivalsa. Non sono mai stato in grado di fingere i miei stati d'animo, per gli scozzesi era impensabile che uno segnasse cinque gol senza il sorriso sulle labbra".
Eri già un libro prima di scriverne uno, il calcio britannico è unico nel creare personaggi letterari?
"La squadra là è una comunità, è molto più di semplice tifo. Sommaci poi l'interrogativo circa quello che sarebbe potuto essere senza quello strano infortunio che va a rendere il tutto ancora più mitologico”.

Nella storia di Marco Negri non mancano capitoli dolorosi, a partire da Ricksen.
"Le ultime partite di beneficienza che abbiamo fatto sono state per Fernando Ricksen, un ex compagno dei Ranger affetto dalla SLA, malattia che purtroppo conosciamo bene. È una patologia 'one way', come dicono in Inghilterra, purtroppo non ci sono cure. Lui è un guerriero, ogni volta che ci vediamo sono per metà molto triste perché la malattia progredisce e per metà mi rende felice perché lo posso riabbracciare. Quando si trova in mezzo a tanto affetto per lui è una grande scarica di energia ed è una bella cosa".
Un male che continua a portarsi via tanti calciatori, riusciremo mai a sapere la verità?
"Io non credo sia legata necessariamente al lavoro di calciatore, ritengo abbia a che fare con il passare molte ore a contatto con il prato, visto che ha colpito anche giocatori di baseball ad esempio. C'è qualche tabù, qualche mezza verità viene fuori ma poi non viene approfondita, mi sembra strano che nel 2017 non si riesca a trovare almeno la causa scatenante. Fernando si è affidato alla medicina alternativa in Russia, dove ha giocato, ma la cura al momento sembra un’utopia”.
A Glasgow hai stretto amicizia con Gascoigne, chi è il vero Paul?
"Io lo definisco 'genio'. Il 'genio' cammina sempre sulla linea, ho avuto il privilegio di giocare con Gazza ma ho avuto anche l'onore di conoscere Paul e non smetterò mai di parlarne bene perché è un ragazzo di cuore. Se ti serviva qualsiasi cosa, era il primo a farsi avanti. Lo stesso Rino Gattuso, appena arrivato a Glasgow, non aveva vestiti eleganti e glieli comprò Paul, dicendogli che il club gli avrebbe restituito i soldi ma non era vero! Gazza è uno che fa cose belle senza che nessuno lo sappia, altri ne fanno pochissime e lo sottolineano. Un cuore d'oro, ha i suoi demoni e li combatte da quando è giovane, è un uomo per il quale faccio il tifo".
Non è solo lavoro, il calcio britannico sembra esserti entrato nell’anima. Perché?
"Sicuramente anche prima di andare in Scozia avevo un approccio diverso rispetto ai colleghi italiani, poi sono rimasto legato a quel mondo perché là ho vissuto la mia esperienza più bella. Giocare ogni settimana davanti a 50 mila persone non succede a tutti, penso soprattutto all'Old Firm (il derby di Glasgow, ndr). Non pensavo alle moviole, era la mia natura e là ho trovato quello che sognavo. Non esci mai dal campo con l'amaro in bocca, ti senti parte di uno spettacolo del quale fa parte anche un pubblico meraviglioso".
Il derby di Glasgow non è solo calcio, come sei stato accolto nel club protestante della città?
"Sono stato accettato benissimo dai compagni, ma in quegli anni lo sfottò non mancava. Arrivava qualche lettera allo stadio con su scritto 'sei nella squadra sbagliata", ma sono tutte cose che fanno parte di un antagonismo davvero profondo. In Italia abbiamo rivalità calde, ma questa è una partita che va oltre, non scendono in campo due squadre ma due popoli. È difficile spiegare le emozioni che si provano durante un simile match, prima dell'Old Firm nello spogliatoio non volava una mosca. Non si parla di giocare bene o male, ma di battere l'avversario perché significa tutto per la tua gente. È la partita più affascinante che abbia mai giocato. Invito tutti gli amanti del calcio a scoprirla".
Gol a raffica e poi quella maledetta pallina. Dove saresti arrivato senza l’infortunio?
"Stavo vincendo la Scarpa d'Oro e c'erano tante voci circa una possibile convocazione in Nazionale, altro sogno che avevo da bambino. Era l'anno di Francia '98, gli attaccanti italiani erano tanti e uno più forte dell'altro. E' uscito un numero sbagliato nella ruota della vita e le cose sono andate diversamente. Era la seconda volta che giocavo a squash, in quel centro mancavano gli occhiali protettivi, e la pallina mi colpì l'occhio. Ero con Porrini, che quel giorno ha dimostrato di avere le mani peggiori dei piedi (ride, ndr). Una cosa dura da digerire, distacco della retina, ero in una bolla magica e quella pallina fece esplodere la bolla e poi tutto è andato a rotoli. La vita è così".
All'epoca raggiungere la nazionale era un'impresa...
"Tra gli altri, c'erano Baggio, Zola, Casiraghi, Del Piero, Vieri, Montella, Inzaghi, Chiesa e mi fermo qua perché la lista sarebbe lunghissima. Una maglia azzurra sarebbe stata la ciliegina sulla torta, era un periodo ricco di campioni, quando vedevo il mio nome su Televideo insieme a quello di Weah o Signori provavo emozioni enormi".
Oggi sarebbe più semplice?
"Io avevo l'istinto, una cosa che secondo me non ha tempo o nazionalità, una cosa che fa la differenza. È brutto sembrare nostalgici, ma quando giocavo in Serie A dovevo affrontare Montero, Ferrara, Thuram, Maldini, Costacurta, Aldair, Buffon, Peruzzi, Toldo... Ogni domenica trovavi un fenomeno. Il livello non è più quello, ma credo che il calcio vada a fasi, questa potrebbe essere l'inizio di una nuova era di giocatori italiani molto forti".
Rivedi un 'Marco Negri' in giro?
"Onestamente non so. Il ruolo dell'attaccante è cambiato, adesso deve rientrare molto e aiutare i compagni, io amo il giocatore che 'fa reparto da solo'. In Italia abbiamo calciatori come Icardi e Higuain, non li paragono a me perché sono molto più forti, però è quella la tipologia di calciatore che mi piace".