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Buffon: "Non date al calcio la colpa dell'odio"

Buffon: "Non date al calcio la colpa dell'odio"
martedì 8 gennaio 2019, 16:02Altre Notizie
di Chiara Biondini
fonte Vanity Fair
E spera di giocare almeno ancora un altro anno: "L’idea, se il Psg sarà d’accordo, è quella"

A pochi giorni dal quarantunesimo compleanno, Gigi Buffon si racconta in esclusiva a Vanity Fair, che gli dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 9 gennaio, aprendo le porte della sua casa di Parigi – dove gioca come portiere per il Paris Saint-Germain – e spalancando quelle sul suo passato. A partire dalla militanza giovanile tra gli ultrà («Commando Ultrà Indian Tips, il nome del gruppo di tifosi che seguivano la Carrarese, ancora ce l’ho stampato sui miei guanti») e dalla frequentazione della curva («Incontravo gente di cui si parla tanto senza saperne nulla. Ragazzi normali. Sognatori. Idealisti. Alcune persone interessanti e qualche deficiente»), esperienze che gli danno un punto di vista non del tutto politicamente corretto sulla recente polemica scatenata dai cori razzisti e dagli scontri sanguinosi a San Siro: «Se affonda un barcone a Lampedusa e muoiono 300 persone ci commuoviamo e pensiamo anche ad adottare i bambini rimasti orfani, ma se non affonda ci lamentiamo dell’ingresso di 300 immigrati e ci chiediamo cosa vengano a fare. È difficile provare a contestualizzare quanto successo a Milano. L’odio è un vento osceno, da qualunque parte spiri. Non solo in uno stadio. Perché ho il forte sospetto che il calcio, in tutto questo, reciti soltanto da pretesto».

«Da ragazzo», racconta Buffon a Vanity Fair, «covavo una sensazione di onnipotenza e invincibilità. Mi sentivo indistruttibile, pensavo di poter eccedere, di fare quel che volevo... Mi tengo ben stretta la sana follia dei miei vent’anni... Ho fatto le mie cazzate, ne ho assaporato il gusto e in un certo senso sono contento di non essermene dimenticata neanche una». Per esempio, la volta in cui, proprio negli anni del Parma, rispose male al suo allenatore Nevio Scala: «Si girò verso di me e mi guardò come nessun altro ha mai più fatto. Era furibondo e aveva tutte le ragioni».

Nell’intervista a Vanity Fair, Buffon ricorda la depressione che lo colpì più di quindici anni fa: «Per qualche mese, ogni cosa perse di senso. Mi pareva che agli altri non interessassi io, ma solo il campione che incarnavo. Che tutti chiedessero di Buffon e nessuno di Gigi. Fu un momento complicatissimo. Avevo 25 anni, cavalcavo l’onda del successo e della notorietà. Un giorno, a pochi minuti da una partita di campionato mi avvicinai a Ivano Bordon, l’allenatore dei portieri, e gli dissi: “Ivano, fai scaldare Chimenti, di giocare io non me la sento”. Avevo avuto un attacco di panico. Non ero in grado di sostenere la gara». Ne uscì, racconta, parlandone con gli altri: «Se non avessi condiviso quell’esperienza, quella nebbia e quella confusione con altre persone, forse non ne sarei uscito. Ebbi la lucidità di capire che quel momento rappresentava uno spartiacque tra l’arrendersi e fare i conti con le debolezze che abbiamo tutti. Non ho mai avuto paura di mostrarle né di piangere, una cosa che mi capita e di cui non mi vergogno affatto».

A proposito di calcio, Buffon dice a Vanity Fair che spera di giocare almeno ancora un altro anno: «L’idea, se il Psg sarà d’accordo, è quella». Si descrive come «uno strano figuro di 40 anni che va in campo, pensa di averne venti e ha più sogni e ambizioni di quanti ne avesse da ragazzo». E tra dieci anni? «Spero di essere in piedi. Se ripenso al ragazzino che ero e ai sogni che avevo, non commuovermi è impossibile».

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