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Juve: il presente da re d'Italia, il futuro della panchina (e Ronaldo...). Inter: tra Spalletti e Icardi pace quasi impossibile (resta solo una possibilità). Milan: la strategia per restare in Paradiso. E un osanna a Quagliarella

Juve: il presente da re d'Italia, il futuro della panchina (e Ronaldo...). Inter: tra Spalletti e Icardi pace quasi impossibile (resta solo una possibilità). Milan: la strategia per restare in Paradiso. E un osanna a QuagliarellaTUTTO mercato WEB
© foto di Alessio Alaimo
martedì 5 marzo 2019, 00:00Editoriale
di Fabrizio Biasin

Vi giuro che sono le 23.15 di lunedì 4 marzo. Alessio Alaimo di Tmw mi ha scritto "mandi il pezzo?". E sono solo all'inizio, quindi non posso affatto cazzeggiare. Meglio così.
È stato il giorno di Icardi che mette like a una foto di Cancelo: la cosa in sé non significa nulla, ma di sicuro non andava fatta. Basta social, basta messaggi, basta tutto. Bisognava evitare, lui come tutti quelli che sono coinvolti in questa tristissima faccenda. Il rapporto tra Icardi e Spalletti è irrecuperabile, inutile fare giri di parole: ognuno ha le sue responsabilità, ma il dato di fatto è che il tecnico ha preferito puntare su un altro leader e Icardi non ha accettato questa cosa. Ieri ad Appiano i due si sono "parlati", ma non è stato un discorso tra amici o persone che intendono recuperare un rapporto, tutt'altro. L'ultimo tentativo è nelle mani di Marotta e del presidente Zhang, ma è molto difficile immaginare qualsivoglia genere di pace né, ormai, ha senso parlare di fascia da capitano. Icardi vorrebbe che si chiarisse pubblicamente quel che è successo e cosa gli è stato detto il giorno in cui è stato degradato, ma ormai avrebbe poco senso e non si farebbe altro che mettere in piazza cose che non dovevano finire in piazza (ripetiamo: colpa di tutti). Inutile parlare anche di futuro: nessuno può sapere che fine farà Icardi perché non lo sa neppure lui, né ci sta pensando. Di sicuro non era l'epilogo che si immaginava, di sicuro in questa storia pochissimi stanno mettendo al centro quello che dovrebbe essere il bene principale, se non unico: l'Inter.
Al resto penserà Marotta, deciso a far partire una rivoluzione che impedisca di tornare a vivere situazioni come questa. Prima c'è da conquistare un posto in Champions, nella speranza che si smetta di svilire il nerazzurro e tutti (ma proprio tutti) decidano di mettere il club davanti ad ogni singolo interesse personale.

Mentre il capocannoniere della passata stagione resta ai margini, non mancano altre situazioni al limite in questa serie A. C'è il paradosso della squadra stra-prima in classifica che soffre (ma vince) e quella seconda che attacca e attacca e attacca (ma perde). De Laurentiis è bravo e ha buone idee, ma se vuole realmente insidiare i pluri-campioni d’Italia (l’ottavo titolo di fila della Juve è ormai una formalità) deve fare un passo avanti. E uno dice: «Sì, deve spendere! Spendere! Spendere!» e certo quello può essere un buon punto di partenza, ma soprattutto deve cambiare mentalità, impostazione e certamente deve invertire le priorità.

Al momento nella testa del numero 1 del club prevale la volontà di avere una squadra ai vertici, senza che però l’ambizione faccia a pugni con l’”esigenza”. E “l’esigenza” è quella di ottenere utili, cosa difficilissima a certi livelli e che, infatti, praticamente riesce solo a lui. Oh, parliamoci chiaro, quest’ultimo è un grande merito: stare nelle parti altissime della classifica e riuscire pure a guadagnare dei soldi (da Cavani a Higuain fino ad Hamsik, le plusvalenze non sono mai mancate), ma allo stesso tempo è il limite che stronca ogni velleità e certifica perché tra la Juve e la sua più diretta rivale non ci sia una semplice solco da colmare, semmai una voragine. Lo dicono i sei punti persi su sei negli scontri diretti, ma ancor di più il fatto che per stare a livello dei primissimi per 38 giornate serve più di una “grande rosa con un grande allenatore”, serve un patron che metta davanti il club a tutto il resto.

Questa cosa contrasta con tutto quello che è accaduto negli ultimi anni in Italia: i grandi presidenti – dal compianto Sensi fino a Berlusconi e Moratti – si sono fatti da parte quando hanno capito di non poter più reggere determinate spese “a perdere”, altri come Pozzo stanno a galla perché hanno diversificato (nella ricca Premier League) e perché comunque non inseguono il successo ad ogni costo. Resta solo lui a certi livelli, De Laurentiis: combatte con la potentissima famiglia Agnelli e ora deve stare attento all’arrivo dei cinesi (Zhang) e degli americani (Elliott), dice a tutti «faremo sempre di più», ma deve fare i conti con uno stadio non all’altezza e con istituzioni «nemiche». In più ci si mette lui in prima persona: azzecca mercati e allenatori ma troppo spesso perde la pazienza e invece di “consolidare”, preferisce “ricominciare”. E così facendo riesce sempre a ottenere buoni risultati, talvolta ottimi, ma costringe chi vuol bene al Napoli a farsi venire l’ulcera nella speranza remota che là davanti decidano di rallentare per chissà quale motivo.

Dicevamo della Juve, bruttina ma già campione. La Signora ha sofferto il Napoli, eppure si è portata a +16. La realtà è che alle rivali italiane manca una tonnellata di esperienza e altrettanta malizia per insidiare i bianconeri. Ora tocca ad Allegri capire che cosa manca alla sua squadra per sfidare l'Atletico Madrid, prima di pensare al suo futuro (Zidane pare sempre di più una decisione presa non oggi, ma addirittura l'estate passata). C'è una settimana di tempo e una passeggiata contro l'Udinese per un'ultima messa a punto. Max deve tirare fuori una delle intuizioni che ne hanno fatto la fortuna in questi anni: cambi di modulo improvvisi, marcature dedicate, invenzioni offensive. Certo, è complicato cambiare qualcosa quando c'è un riferimento imprescindibile come Cristiano Ronaldo davanti. Finora a pagare è stato soprattutto Dybala, finito in panchina più di quanto potesse aspettarsi. L'intesa tra la Joya e Cr7 poteva (e può) essere il segreto di questa Juve, se le cose andranno male diventerà il rimpianto più grande.

A proposito di ulcere, continuano ad accumularne i detrattori di Rino Gattuso. Il Milan gioca male? Vero, nelle ultime due partite ha clamorosamente sofferto. Il risultato? Un buon pareggio nella semifinale di andata di Coppa Italia in casa della Lazio e tre punti preziosissimi grazie a un autogol contro il Sassuolo del sempre pregevole De Zerbi. Ecco, l'altro 40enne terribile delle panchine italiane punta al gioco ma porta a casa meno di quel che merita – anche perché gli hanno tolto pure Boateng –, quello brutto e “raccomandato” ora si gode quattro punti di vantaggio sulla quinta in classifica. Come? Costruendo un Milan a sua immagine, attentissimo in difesa, dove cresce a ogni partita il rendimento di Romagnoli. Il bel gioco? Difficile chiederlo quando Suso e Calhanoglu non rendono come potrebbero. Meglio mettere l'elmetto in attesa di tempi migliori.

Chiudo con un elogio dell'ultima speranza italiana nella classifica cannonieri. L'uomo da 19 gol finora e poche esultanze. Il cannoniere che ti fa venire voglia di dire a Mancini “convocalo”, anche se è nato nella generazione sbagliata. Signore e signori, Fabio Quagliarella (da Esquire.it).
E viva Astori, oggi e ogni giorno.

Quagliarella Fabio, campano di Castellammare ha diversi problemi.

Il primo problema è che non ha un cognome granché musicale, tipico dei calciatori più fortunati e, anzi, lo assoceresti più che altro a un’agenzia di assicurazioni: “Agenzia Quagliarella, porta qui la tua pratica bella”. E voi direte: “Che c’entra?”. Anche il cognome musicale fa brodo.

Il secondo problema di Quagliarella è che è nato nell’era sbagliata. Fateci caso: la classifica dei tuoi talenti varia a seconda del periodo storico in cui nasci. Chiunque abbia giocato nell’era Michael Jordan, pur bravo che sia, sarà sempre ricordato come “quello che ha giocato nell’era Michael Jordan”; Jure Kosir è stato un gradissimo slalomista ma scendeva dai monti negli stessi anni di Alberto Tomba e, quindi, “Jure Kosir chi?”. Ecco, nel suo piccolo, Quagliarella è cresciuto in un’epoca in cui gli attaccanti, le prime punte, i bomber, abbondavano come miele nell’alveare e, quindi, ha sempre dovuto abbozzare a questo e quel Gilardino, Di Natale, Toni, Cassano e prima ancora a questo e quel Del Piero, Totti, eccetera.

Sia chiaro, è anche e soprattutto colpa sua che non ha mai trovato stabilità, continuità e altre cose che finiscono con la à, ma diciamo che oggi uno come lui, ma con 10 anni di meno, non avrebbe problemi a ritagliarsi un ruolo da “leader dell’attacco azzurro” anche solo per mancanza di alternative: Belotti si impegna ma fatica un po’, Insigne è bravo ma fatica un po’, Balotelli è Balotelli, Immobile invece è bravo e c’è poco da aggiungere (“sì ma in Nazionale non è decisivo”, sentenziano i precisini).

Quagliarella ha anche un terzo e un quarto problema. Il terzo è una cazzata, ma provateci voi a non esultare praticamente mai “per rispetto della squadra dove sono stato”. E il fatto è che lui ha giocato a ogni latitudine, dalla Sabaudia al Regno di Sicilia citeriore: Torino, Florentia Viola, Chieti, ancora Torino, Ascoli, Samp, Udinese, Napoli, Juve, ancora Torino, ancora Samp. Capite bene che mandar giù l’adrenalina ogni volta che la butti dentro non deve essere semplice.

Il quarto problema è diretta conseguenza del terzo, il fatto cioè che non sia mai riuscito – se non ora a Genova – a mettere radici per i più svariati motivi: carattere buono ma non arrendevole, problemi di ambientamento, questioni allucinanti di minacce, noie con l’allenatore di turno. E anche in questo caso il principale responsabile è certamente lui, ma certamente “non solo lui” (soprattutto nel caso della sua esperienza a Napoli: leggi, appunto, fetentissimo stalking).

Il quinto e ultimo problema è in realtà un non-problema: Quagliarella ha la sua bella età e quindi non dipende dai social, li frequenta il giusto, vive benissimo anche senza e se deve dirti qualcosa, ti fa una telefonata. Molti dovrebbero prendere esempio…

Ebbene, qui eviteremo di dire la solita cosa (ma la diremo), e cioè “Mancini, portalo agli Europei!” perché ci piacerebbe molto, ma a 36 anni non sai mai quanto può durare il momento magico, e quello che ora sembra un trattore magari nel 2020 avrà le vene varicose; però ci teniamo a sottolineare che questo qui si merita ben più di questo sciocco articolo, si merita le copertine, perché attaccanti così non si trovano sugli scaffali del supermercato: ha segnato di testa, di piede, tantissimo di tacco, in rovesciata, semirovesciata, da dentro e fuori area, ci ha sempre messo la faccia e se gli dici “oh, sei in testa alla classifica marcatori al pari di Cristiano Ronaldo!” (19 gol) quasi si intimidisce e no, davvero non dovrebbe.

Fine. Non c’è molto altro da aggiungere: Quagliarella è a fine carriera, non ringiovanirà come fosse un Benjamin Button pallonaro, né finirà a giocare in qualche altro super top team (ce l’ha fatta Boateng, con tutto il rispetto, se lo sarebbe meritato pure lui), ma ci tenevamo molto a rendere omaggio a cotanto attaccante, perché un conto è fare tanti gol (196 in 588 presenze) un conto è farli come li ha fatti lui.

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