
Clemente di San Luca a TN: "L'arrivo di De Bruyne imporrà a Conte un cambiamento"
Guido Clemente di San Luca, Docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, analizza così le ultime settimane in casa Napoli.
"Non mi piace il modo in cui sono stati letti e rappresentati i festeggiamenti per la vittoria. Non mi piace affatto la costruzione della ‘normalità’ vincente, giustapposta alla realtà. Nemmeno mi piace l’auspicata abitudine alla vittoria come se il resto non contasse. Mi piace vincere, certo, ma nel segno dei nostri tratti identificativi. Non mi piace farlo assumendo quelli di chi da sempre ha costituito il nostro antipode. Non mi piace la retorica della omologazione al modello culturale mitteleuropeo (posto che ce ne sia ancora uno). È manifestazione di un provincialismo perverso. Il sapore ed il gusto della vittoria hanno senso pieno se la otteniamo nel segno della nostra identità. Detesto il racconto dell’essere ormai noi i più forti ed ambiti. Disvela una sostanziale grettezza. Che abbiamo vissuto sempre nell’invidia. Che non coltivavamo virtuosamente l’alternativa. Che non volevamo sconfiggere il modello degli avversari. Che non vedevamo l’ora di poterlo fare nostro.
Ma è così? A me non pare. Nessuno discute la contentezza euforica per la vittoria, specie se all’esito di un finale di stagione che è parso la realizzazione di una sceneggiatura scritta dal più sofisticato scrittore di gialli. Avreste dovuto vedermi, e ascoltare le mie urla di gioia, per misurarne la eccezionale intensità. Sì, ma che c’entra? Questa vittoria non può, né deve, essere interpretata nella maniera che tradisce la nostra identità. Nel DNA del popolo azzurro c’è il gusto del bello. Non possiamo accettare pedissequamente di appiattirci sulla cultura della vittoria ad ogni costo. Perché significa tradire la nostra essenza, diventare come loro. Vogliamo forse dimostrare che siamo stati ipocriti ad invocare per anni la legalità affinché la competizione si svolgesse lealmente? Che in realtà l’unica cosa che provavamo era invidia livorosa per chi vinceva, non il disprezzo e la riprovazione per come lo facessero?
In questo tempo di sospensione tra la gioia e lo sguardo proiettato sul prossimo futuro, dominato dall’insopportabile teatrino del calcio-mercato, alcune notizie meritano una riflessione.
Anzitutto, la dichiarazione del Presidente che resterà qui fino a quando sarà in vita. Poi – ha detto – «i miei figli decideranno che fare». Non per i soldi («Se mi offrono 2 miliardi e mezzo io non vendo»). Piuttosto perché «Il calcio Napoli si identifica con la napoletanità, con un’idea che vogliamo portare avanti». L’affermazione, forse, meriterebbe un chiarimento. In ogni caso – come ho sempre scritto, e diversamente da quanto riferiscono i suoi servi sciocchi e da quel che, mal consigliato, egli stesso creda che io pensi di lui – considero ADL il miglior Presidente possibile. Perché è un impresario capace, scaltro e visionario, che ha dimostrato di saper coniugare il far profitto con la straordinaria passione popolare azzurra. Nonostante non abbia mai perso occasione per esibire molto poco dei tratti che connotano il modello culturale partenopeo, talora sfociando purtroppo in uno smisurato e dannoso egotismo (del quale, peraltro, ha prontamente compreso la nocività per i suoi stessi interessi, mutando radicalmente atteggiamento).
La seconda notizia è il racconto che Conte ha fatto di sé a Sky. Ne è emerso un quadro abbastanza chiaro. Quello di un uomo tenace e di un allenatore vincente. Il participio aggettivante è attribuibile solo sulla base dei fatti: è tale chi ha vinto, senza alcun riferimento ad altro, senza chiedersi in che modo, con quanto merito, con quanta buona sorte, se dimostrando superiorità, se offrendo anche godimento estetico. È vincente chi vince, a prescindere da come.
Il mister non ha mai fatto mistero della sua fede juventina (a quanto si è letto – anche se lui ha sdegnosamente smentito – sembrava certo che volesse tornare a casa sua). La quale stride con la fede azzurra, e significativamente. Ciò si esprime proprio in quella ossessione per la vittoria, da ottenere ad ogni costo, scritta a chiare lettere nella sede bianconera. L’elemento non appartiene alla nostra tradizione, che ha sempre amato e voluto coniugare la vittoria con la bellezza, e contraddice il tratto antropologico caratteristico del popolo azzurro. Del resto, sono illuminanti le parole di Papa Leone XIV pronunciate nella Messa per il Giubileo dello Sport, il 15 giugno scorso: «in una società competitiva, dove sembra che solo i forti e i vincenti meritino di vivere, lo sport insegna anche a perdere, mettendo l’uomo a confronto, nell’arte della sconfitta, con una delle verità più profonde della sua condizione: la fragilità. Il limite, l’imperfezione. Questo è importante, perché è dall’esperienza di questa fragilità che ci si apre alla speranza. L’atleta che non sbaglia mai, che non perde mai, non esiste. I campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che, anche quando cadono, trovano il coraggio di rialzarsi».
Conte ha sciolto favorevolmente la riserva dopo più di qualche giorno di riflessione. Sarà stato convinto dalla formidabile capacità persuasiva di ADL. Oppure l’avranno fatto le affettuose ‘pressioni’ familiari e amicali, o l’amore infinito del popolo azzurro per la squadra espressosi in un bagno di folla coreograficamente straordinario. Non è rilevante. Ardentemente speriamo solo che abbia finalmente imboccato la via di Damasco. Che abbia cioè rinvenuto in sé l’uomo del sud (fin qui è stato etichettato così da una stampa compiacente che ha fatto riferimento solo ai suoi natali e non al suo modo di essere). Lo vedremo. A cominciare dal gioco. Certo, l’arrivo di KDB lo ‘costringe’ a rivedere quello esibito nella scorsa stagione (sotto il profilo estetico, obiettivamente, uno dei più brutti Napoli dell’era De Laurentiis). Non si può fare affidamento solo sul kairos favorevole, non sempre succede che gli astri si congiungano in maniera propizia, non sempre capita di avere la inaspettata alleanza, l’uno a seguire l’altro, di Soulé, Orsolini e Pedro (che abbiamo benedetto dopo immani sofferenze tifose). KDB è un fuoriclasse, perfettamente in linea con il desiderio e lo stile partenopei, golosi di bellezza. Nel Napoli della scorsa stagione non avrebbe trovato collocazione. Il suo arrivo ‘imporrà’ a Conte di cambiare il modo di giocare.
L’ultima notizia sembra suonare molto strana nel super mercificato mondo del pallone. Abbiamo constatato che non sempre è vero che i soldi azzerano tutto il resto. Spalletti, sollevato con modalità indecenti dall’incarico di c.t. della nazionale, rinuncia al contratto e si dichiara disponibile alla rescissione consensuale. Un gigante in un mondo popolato da uomminicchi e quaquaraqua. E poi Osimhen, che rinuncia ai 40 milioni a stagione degli arabi «perché il suo sogno è la Premier». Dunque, avrebbe un sogno per realizzare il quale guadagnerebbe molto ma molto meno? Qui, però, bisogna stare attenti. Scenario non implausibile: ADL non vuole rinunciare alla clausola, ma nessuna società gradita al calciatore offre i 75. Alla fine, se lui volesse restare al Galatasaray e i turchi offrissero 50, si potrebbe rifiutare rischiando di perderlo a zero?
Conclusione sulla passione tifosa. Quella di chiunque – a prescindere dalle classi sociali di appartenenza e dai mestieri che si svolgono – è attitudine che non può essere confusa con alcun’altra: né con la competenza, né con le varie discipline che studiano il fenomeno calcio (dalla sociologia alla politologia, dall’etica all’antropologia). La mia autentica, folle, indomabile, indissolubile e non discutibile ‘malatìa’ per l’azzurro non mi impedisce affatto di (anzi, per certi versi, dovrebbe pretendere di) continuare a ragionare. Sia negli ambiti che mi sono propri (il diritto e la sua non opinabile applicazione alle regole del calcio), sia nell’ambito in cui mi diletto, della competenza calcistica (pur avendo giocato e allenato a livello amatoriale – anche se federale – per più di cinquant’anni, non ho titolo per discettarne). E ragionare pubblicamente è esercizio del diritto fondamentale di cui all’art. 21 Cost.: la libertà di manifestazione del pensiero.
Nonostante i tempi cupi che purtroppo stiamo vivendo, il dissenso resta la pietra angolare della democrazia. Come lo è la libertà d’informazione (sia di informare, sia di essere informati) che ne è diretta diramazione. Sì, proprio quella che dovrebbe costituire il luogo fisiologico e abituale di chi esercita la nobile professione di giornalista. Una professione che, non di rado – ahimè! –, viene tradita da chi, anziché servirne la causa ontologica (informare i cittadini), in via strumentale la piega ad interessi di parte, o addirittura la utilizza per dar sfogo ad inspiegabili ed immotivati istinti. Per quanto interessi qualcuno, e fermo restando tutto quel che ho sempre espresso (non sono aduso a cambiare idee disinvoltamente a seconda della convenienza), ritengo doveroso specificare che sul mio modesto pensare resta più d’un equivoco interpretativo. Da quanto ho scritto in questi ultimi anni, tuttavia, è comprovato che mai abbia manifestato convincimenti incoerenti con quelli poc’anzi ribaditi: sfido chiunque a trovare anche un solo passaggio in cui si riscontri il contrario".







