
Il naif del calcio italiano, la storia di Domenico Marocchino
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"Entrare nello spogliatoio quando ho fatto il mio primo provino, a 14 anni. Quell'odore che c'era nello spogliatoio nessuno lo può capire. Ancora me lo ricordo". Così inizia il racconto di Domenico Marocchino a Storie di Calcio, trasmissione di TMW Radio. Il pallone giocato, in realtà, non gli manca proprio, ma quelle sensazioni sì. Classe '57 di Vercelli, sui campi ci è finito per la sua grande passione. E soprattutto perché è sempre stato un gioco: "Sognavo di non lavorare (ride, ndr). Ma l'ho sentito dire anche da qualche altro in realtà. Al di là delle battute, essendoci meno visibilità di oggi, allora si fantasticava molto sul mondo del calcio e per questo ho voluto fare il giocatore. Adesso dei calciatori sappiamo tutto, e anche troppo".
Cresciuto nel vivaio della Juventus, ha vestito le maglie di Juniorcasale e Cremonese prima di esordire in Serie A con la maglia dell'Atalanta, il 17 dicembre 1978. Poi l'anno successivo fece ritorno alla Juventus, nelle cui file militò per quattro stagioni, vincendo due Scudetti e una Coppa Italia. La sua migliore stagione in bianconero rimase quella del 1981-1982, dove ottenne anche la convocazione in Nazionale. Vestì poi le maglie di Sampdoria e Bologna, prima di chiudere la carriera tra Casale Monferrato e Valenzana, nel 1992.
"Mi hanno definito Cavallone discontinuo e assente? Perché la continuità non è mai stata una mia caratteristica, ma è una questione caratteriale - ha ammesso Marocchino -. Inconsciamente mi succede. Il tornante poi è un uomo solo, ha la riga del campo accanto e poi dovevo andare e poi tornare indietro, ed era faticoso. Per consacrarmi mi è mancato un dna naturale. Io non ho mai avuto questa fede, mi è sempre piaciuto il calcio perché mi sono sempre divertito, ma sono stato anche da professionista molto 'svolazzante'. Madre natura mi ha dato caratteristiche per arrivare a buoni livelli comunque, nonostante non abbia avuto tutta questa professionalità".
Poi ha ammesso sulla sua carriera: "Il ricordo più bello è stato lo Scudetto vinto all'ultima partita contro la Fiorentina. Ma forse il ricordo più bello è la prima maglia in Serie A con l'Atalanta, giocai anche lì contro la Fiorentina. Però lo Scudetto, la tranquillità di fumarmi una sigaretta nello spogliatoio dopo la vittoria, mentre mi rilassavo...". Mentre sulla sua esperienza alla Juve ha detto: "Sicuramente è stato un grande sogno che si realizzava. Lo appresi mentre facevo i Mondiali militari, persi tra l'altro, lessi la notizia sui giornali. E ci fu subito un problema: come raggiungere lo stadio il giorno della preparazione. Presi il treno dal mio paesino, poi mi portò un tassista allo stadio. Che non capì fino all'ultimo che ero un giocatore della Juve. Allora la rosa era ridotta e c'era una certa gerarchia. Ignaro di tutto, stavo per sedermi al primo posto del pullman poi per andare via con i compagni, poi mi dissero di chi erano i posti. E mi ritrovai sempre all'ultimo posto, quello lungo. E ci ho guadagnato. Furino, Bettega, Zoff, Causio? Non li ho mai portati in discoteca. Erano di una professionalità pazzesca, ma ho avuto con tutti un buon rapporto. Andavo d'accordo con tutti. Il capitano Furino era un rompiscatole, non voleva mai perdere in campo, a carte".
Altri ricordi poi affiorano nella memoria di Marocchino, tra vita vissuta tra famiglia e calcio: "Devo dire grazie ai miei genitori, perché mi hanno sempre detto di studiare e l'unica cosa era che dovevo diplomarmi, perché non si sapeva mai. E poi ai miei tecnici. Ho avuto tanti nomi importanti, ma scelgo Trapattoni, che era uno a tutto tondo, e si soffermava anche sul rapporto uomo-pallone. E poi Battista Rota. Mi fece giocare contro la Lazio, non ero in palla, mi sostituitì nel secondo tempo e mi disse 'hai giocato ieri pomeriggio te'".
Un ricordo speciale anche per Boniperti: "Lo facevo anche sorridere. L'ho conosciuto che avevo dieci anni, a sedici mi riconobbe, quando feci il primo contratto. Mi viene in mente un aneddoto. Negli anni Ottanta ci fu la Juve che non mandò per un po' di tempo i giocatori alla Rai, poi l'Avvocato sbloccò la situazione. E Boniperti in tv mandò me. E mi disse 'Mando te'. E io chiesi il perché, 'perché qualsiasi domanda complicata che ti faranno, tu troverai sempre uno stratagemma per uscirne fuori'. Perché lo avevo abituato così. C'era un bel rapporto con lui. A chi chiedere scusa? C'è una lista mica da ridere. Devo chiedere scusa a una parte del mio cervello razionale che ogni tanto mi diceva che quello non era il percorso da fare. E ho sempre tenuto questa parte in secondo piano, sono sempre andato a briglie sciolte. E poi a diversi allenatori a cui ne ho fatte passare di tutti i colori. Forse ad Antonio Santini, che ho avuto a Bologna". E La Nazionale? Non è un rammarico l'unica presenza con la maglia azzurra: "Addirittura mandarono Tardelli a cercarmi per cinque giorni...Non sentivo il desiderio della Nazionale. Ero distratto da altre cose, pur amando la Nazionale".
E ha concluso dicendo: "Non c'è un Marocchino oggi? Non ci sono i giocatori naif. Oggi è un altro mondo. C'è gente molto più brava".
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