
Dentro al cuore del Barça. Parla l’ex tecnico dell'Under 19: "Vi racconto la Masia"
Vi dice niente il nome di Oscar Lopez? Qualcuno se lo ricorderà per una parentesi tra il 2004 e il 2005 con la maglia della Lazio. Fun fact: l’ex difensore spagnolo è stato il primo acquisto nell’era Lotito. Le vere fortune però Lopez le ha raccolte da allenatore delle giovanili del Barcellona, dove è rimasto tra il 2017 e il 2024 e vedendo passare tra le sue fila i vari Lamine Yamal, Cubarsì e tutto il meglio che la Masia abbia da offrire. Ed è proprio da quel settore giovanile lì che spesso e volentieri nascono le magie: “Penso che il segreto stia soprattutto nell’approccio. Noi vogliamo formare uomini prima che calciatori, vogliamo insegnare ai ragazzi i principi e dargli un esempio di vita. Noi già sappiamo, e lo sanno anche loro, che la maggior parte di essi ha la tecnica e il talento per arrivare al top, ma spesso non basta”.
Ma secondo lei questo talento come si coltiva?
“Penso che il talento sia insito in ogni calciatore e il nostro obiettivo è stimolarlo attraverso il lavoro. Poi è chiaro: non tutti i giocatori hanno il talento di Lamine, però con il duro lavoro anche altri possono fare la sua carriera”.
Tutti i migliori talenti del Barcellona (e non solo) sono passati da lei: ce li racconta?
“Due anni fa soprattutto ho avuto tanti giovani che poi sono passati in prima squadra. Tra questi uno che mi ha particolarmente stupito è Marc Casadó. È un ragazzo che ha dovuto lavorare tanto, anno dopo anno, per arrivare lassù. La sua mentalità è forse il suo più grande punto di forza perché è riuscito a migliorare di anno in anno e alla fine ha raggiunto il suo obiettivo. Marc è sicuramente uno dei giocatori più professionali che ho avuto. Lamine è un caso diverso. Già a 13-14 anni si vedeva che cresceva ad una velocità spaventosa, diversa da tutti gli altri”.
Non a caso appena 18enne e si parla già di Pallone d’Oro…
“Magari quest’anno no, ma in futuro ci riuscirà sicuramente perché è diverso da tutti gli altri. La cosa importante ora è proteggerlo e guidarlo in un mondo che rischia di essere molto complesso da saper gestire a livello psicologico se si ha 18 anni…”.
Negli ultimi giorni, infatti, sono emersi una di aspetti extra campo che forse ne rappresentano il pericolo numero uno.
“Lamine è un ragazzo che a 18 anni ha la possibilità di entrare in contatto con tantissime persone a livello mondiale e quindi è facile perdersi. In questo contesto diventano fondamentali gli insegnamenti della famiglia, di coloro che lo gestiscono e del suo allenatore Hansi Flick. Un giocatore con un talento così grandioso non può durare 2-3 anni”.
È pronto per raccogliere la maglia numero 10 del Barcellona?
“Sono certo che il numero 10 non sarà pesante, per lui sarà un numero come un altro. Credo che forse sia una scelta che sembrerà più importante ai tifosi di quanto non lo sia per Lamine”.
Lei ha giocato anche in Italia, quali differenze ha trovato tra il nostro campionato e quello spagnolo?
“La differenza più importante tra i due movimenti calcistici, dal punto di vista del gioco, è il modo in cui viene trattata la palla. Recentemente ho visto la partita dell’Europeo Under 21 tra Spagna e Italia (terminata 1-1 lo scorso 17 giugno, ndr): l’Italia tende molto a cercare di difendere la propria porta, la Spagna invece tenta di sottomettere gli avversari attraverso il palleggio ed il possesso palla. È una caratteristica che spesso butta giù gli avversari perché quando hai tu la palla per il 70%-80% del tempo non è facile rimanere in partita”.
Alla Lazio ha giocato con Simone Inzaghi, l’ha stupita il suo percorso da allenatore?
“Simone ha sempre dato un’impronta molto chiara alle sue squadre: difendere basso e uscire in modo rapido. La sua Inter accettava di difendere uomo su uomo in tutto il campo. Qui in Spagna è difficile vedere un tipo di fase difensiva come quella dei nerazzurri ma questo è ciò che rende speciale il calcio: non c’è un unico modo di giocare. Mi ricordo di Simone quando abbiamo giocato insieme. Era un ragazzo con una mentalità molto forte ma sinceramente non mi sarei immaginato che potesse diventare uno dei migliori allenatori al mondo”.
C’è qualche squadra di Serie A che ha attirato la sua attenzione?
“L’Atalanta e l’Inter mi sono piaciute molto negli ultimi anni, soprattutto per la loro aggressività e per il loro modo di difendere. È un po’ quello che ha fatto il Chelsea nella finale del Mondiale per Club contro il PSG. Personalmente non sono un allenatore che si fossilizza su un’unica idea, mi piace la versatilità che certe squadre dimostrano di avere: essendo spagnolo amo il palleggio, ma anche difendere basso e ripartire veloce è una caratteristica che apprezzo molto”.
Segue qualche suo ex giocatore che gioca in Serie A?
“C’è Iker Bravo che è all’Udinese, l’ho allenato cinque anni fa. Al Como poi c’è Alex Valle, lui era il mio “soldato”. È un ragazzo che interpreta sempre molto bene le cose che gli vengono dette di fare. Ricordo tante belle cose di questi giocatori”.
A Como, per altro, sta nascendo una piccola colonia spagnola.
“È una squadra con un’idea di gioco ben precisa, plasmata da Fabregas dopo che in carriera è stato allenato da Guardiola. I giocatori conoscono questo tipo di calcio e questa mentalità che Cesc propone loro e quindi la crescita non mi sorprende. Fanno un calcio complesso, molto posizionale, simile a quello che facciamo noi al Barcellona. Per chi non lo ha mai fatto non è facile ed è per questo che puntano su certi profili. L’anno scorso sono arrivati decimi, hanno fatto un grande campionato, e quest’anno possono fare ancora meglio”.
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