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Benassi a RFV: “Mi davano per finito: ho sofferto ma sono rinato. E adesso la Fiorentina è casa mia”
Oggi alle 15:46Copertina
di Andrea Giannattasio
per Firenzeviola.it

Benassi a RFV: “Mi davano per finito: ho sofferto ma sono rinato. E adesso la Fiorentina è casa mia”

Per la prima volta da quando ha appeso gli scarpini al chiodo, Marco Benassi si è raccontato senza filtri ai microfoni di Radio FirenzeViola. Un’intervista lunga, profonda, a tratti dolorosa, in cui l’ex centrocampista viola ha ripercorso il momento più delicato della sua carriera: l’addio al calcio giocato e la necessità di reinventarsi e di ricostruire un’identità oltre il campo. Un viaggio tra silenzi, delusioni e porte chiuse, ma anche con al centro la famiglia e l'amore viscerale per Firenze e per la Fiorentina, che oggi rappresentano più che mai casa. Una vera e propria rinascita quella di Benassi, che da pochi mesi ricopre la veste di collaboratore tecnico dell’Under-18 viola guidata da Marco Capparella. Un ruolo che gli ha restituito entusiasmo, passione e senso di appartenenza, permettendogli di trasformare l’esperienza – anche quella più dura – in un valore da trasmettere ai più giovani.

Marco Benassi, intanto, è un piacere ritrovarla. Dica la verità: è già abituato a farsi chiamare “mister”?
“Devo dire la verità… è stata una sorpresa anche per me iniziare questo nuovo viaggio ma mi ci sto trovando benissimo. È un qualcosa che veramente mi ha fatto rinascere e per questo ringrazio tanto la Fiorentina e il direttore Angeloni. Gli ultimi anni li avevo passati allenandomi sempre qui, perché mi era stata data la possibilità di allenarmi, ma l'obiettivo era un altro… era quello di ricominciare a giocare. Poi, per una serie di motivi, sono passato da quest'altra parte. Non vi nego che all'inizio è stato un po’ difficile abituarsi alla parola mister, però devo ammettere che ora sono veramente felicissimo di quello che sto facendo”.

Ma quando giocava si immaginava che, un giorno, sarebbe finito in panchina?
“Sono sincero, no, mai. Perché io sono sempre stato uno che ha molto ragionato giorno per giorno. Quindi progetti a lungo termine non li ho mai fatti, neanche quando giocavo. Certo, poteva capitare a volte il pensiero, ma non mi ci sono mai visto. Quindi, sotto certi aspetti, è stata una scoperta anche di me stesso, perché sto vedendo che mi piace molto: mi riempie le giornate e lo faccio veramente con grande passione. Spero davvero che sarà una cosa che potrà durare”. 

Ma quanto le manca realmente il terreno di gioco?
“Mi ci sto abituando pian piano. Ogni tanto con i ragazzi, quando manca un giocatore, mi butto ancora dentro, perché comunque ho smesso da poco di giocare. Il calcio è sempre stata la passione della mia vita, quindi quando c'è occasione, lo faccio volentieri. Però, man mano che passa il tempo, un pochettino passa la nostalgia del campo. Ammetto che all'inizio mi mancava: nei primi giorni degli allenamenti, non poter correre e aiutare i compagni mi pesava. Ora ci sto facendo l'abitudine e mi sta piacendo molto”.

Il direttore Angeloni, di recente, ci ha detto che la vedeva triste al Viola Park ed è per questo che ha pensato di coinvolgerla. Ha passato davvero mesi difficili quando ha smesso di giocare per problemi fisici?
“Su questo ci sono un po' di leggende e voglio chiarire la situazione una volta per tutte. Io non ho smesso per colpa degli infortuni. L'ultima avventura che ho fatto da giocatore l'ho fatta a Cremona, feci cinque mesi e giocai diciassette partite su diciannove. Uno che ha problemi fisici non ce la fa a giocare in Serie A diciassette volte su diciannove. So che c'era questa diceria su di me perché mi sono fatto male quando ero a Verona al polpaccio per tre volte. Ma avevo ventisei anni. Questa è la cosa che, sinceramente, più mi è dispiaciuta a livello personale, perché tante persone neanche si informavano sulla mia situazione. Io - secondo qualcuno - ero “rotto” a prescindere e non potevo più giocare. E, ripeto, la cosa mi ha fatto molto male. Dopo dieci anni in Serie A un minimo di credibilità pensavo di essermela guadagnata e almeno un’occasione speravo di averla”.

Quindi non ha avuto altre proposte dopo Cremona?
“A febbraio dell'anno scorso avevo deciso di ricominciare in Serie C, perché volevo darmi un'altra occasione. Poi, per una serie di motivi, è saltata anche quell’opportunità ed è lì che non ho più voluto saper niente perché quando anche in Serie C fanno saltare le trattative per i soliti “motivi" ho detto: “Basta, non ne voglio più sapere”. Anche perché era una vita, nonostante facessi poco, che era diventata pesante”.

Chi le è stato davvero vicino in questi momenti per lei difficili?
“La mia famiglia in primis mi ha aiutato tantissimo. Io ho quattro figli, mi sono sposato quando avevo vent’anni… quindi la mia famiglia è la parte che è sempre rimasta con me e mi ha aiutato tanto. Spesso venivo tutti i giorni al Viola Park a vedere gli allenamenti e anche quello è stato un modo per soffrire meno. Ma, ripeto, più che sofferenza, è stato il dispiacere per tanti addetti ai lavori che, a mio modo di vedere, hanno lavorato male, perché si dovevano informare su di me. Io oltretutto non ho mai avuto pretese economiche, perché addirittura mi sono proposto in prova a zero. Ma nonostante quello, ci sono stati tanti no”.

Ha dei rimpianti per qualcosa?
“Forse l’unico è il fatto che, avendo i figli che stanno crescendo, mi sarebbe piaciuto, permettergli di vedermi giocare. Non facevano altro che dire: “Papà, quando ricominci? Papà, dove vai? Papà, cosa farai?”. Quello un po' mi pesava. E mi sarebbe piaciuto vederli allo stadio un po' più grandi”.

Come si ricostruisce un'identità quando smetti di fare il calciatore e ti devi reinventare in un altro ruolo? 
“Per me è stato tutto molto rapido. Perché ho iniziato subito dando una mano a Galloppa in Primavera lo scorso anno e poi, adesso, sono nello staff dell’Under-18. Ho trovato uno team di lavoro clamoroso ma anche una famiglia. E ho imparato tanto anche dal punto di vista calcistico. Cose che gli allenatori che che ho avuto io, per dire, non mi avevano mai insegnato. Sono stato fortunato”. 

In percentuale, quanto si sente ancora giocatore e quanto invece allenatori? 
“Devi essere bravo a switchare subito. Da giocatore ragioni più da solo mentre nel ruolo in cui sono ora devi gestire ventidue-ventitré teste. E, a maggior ragione, hai a che fare con dei ragazzi, quindi devi cambiare immediatamente mentalità sennò non riesci a stargli dietro. E su quello, devo dire la verità, penso di essermi calato bene subito”.

Ci parli un po’ della “sua” Under-18: che squadra è?
“È un gruppo di cui mi sono innamorato dopo cinque giorni. Non posso dire che sono come i miei figli, perché se sentono i miei figli si arrabbiano, ma sono appena un gradino sotto. Sono un gruppo di ragazzi disciplinati, che danno tutto. Qualsiasi cosa gli proponi, te la fanno al massimo. E sono veramente innamorato di loro. Sono quasi come fossero ventidue figli sotto tutti gli aspetti. Io, finché ho dei ragazzi così, gli do anima e corpo, perché se lo meritano”.

Oggi cosa vuol dire la parola Fiorentina per lei? 
“È banale, ma è casa ormai. Perché Firenze e la Fiorentina sono state la parte più importante della mia vita. Ci sono nati gli ultimi due figli e mi ci sono cresciuti i primi due. Quindi anche a livello familiare è casa mia. Ho preso casa ora di nuovo per starci per tutta la vita”.

Quanto della sua esperienza, anche quella più dolorosa, cerca di trasmettere ai suoi calciatori?
“Vorrei trasmettergli tutte le esperienze che ho vissuto. Mi è capitato con più di un ragazzo di parlargli a quattr'occhi, perché sono in un'età dove non sono adulti ma non sono neanche più ragazzini. E con tanti c'è bisogno di fargli capire cosa gli serve per provare ad arrivare a certi livelli. Io gli dico sempre che la parte tecnica e la parte fisica sono fondamentali ma quello che fa la differenza per arrivare in alto è la testa. Con qualcuno, magari, ci ho messo un po’ di più, però ho a che fare con ragazzi che ascoltano. Non devono riposarsi mai, neanche durante l’allenamento: mai fare un minuto di pausa. Bisogna sempre stare sul pezzo”.

Ma in tal senso lei è più indulgente o più severo verso i ragazzi, rispetto agli allenatori che ha avuto? 
“Io cerco di essere me stesso. Certo, rispetto al mister, che è quello che è un po’ più buono, io se c’è da bacchettare, bacchetto. Perché comunque pretendo che quando si va in campo, al di là che i ragazzi abbiano diciassette anni, devi pensare a lavorare. Io glielo dico sempre: “A me in tasca non mi viene niente”. Devono capire che questa è la cosa che fa la differenza, se vogliono provare ad arrivare a livelli alti”. 

Nella sua carriera c'è un allenatore che ha avuto al quale le piacerebbe ispirarsi, se poi un giorno dovesse intraprendere veramente un percorso da allenatore a certi livelli?
“Ne ho avuti tanti, anche di bravi. Da Ventura, a Mihajlovic, che purtroppo non c'è più, al primo Pioli a Firenze. Quello che però mi ha veramente colpito più di tutti è Vincenzo Italiano. Io da lui, e ve lo dico nonostante abbia giocato poco e mi abbia perfino cambiato ruolo, ho imparato tantissimo. Aveva una preparazione che era qualcosa di allucinante. E penso che si stia continuando a vedere anche ora. Spesso ci scherzavo e gli dicevo: “Prima della fine dell'anno, ti regalo una scatola d'occhi, perché non puoi tenere questi ritmi”. Però, tutta questa convinzione che ha l'ha portato ora a livelli altissimi”.

Chiudiamo con i suoi figli, Alessandro e Andrea, che giocano nelle giovanili della Fiorentina. Che percorso pensa possano avere?
“Sono piccolissimi, è troppo presto per dirlo (hanno 8 e 10 anni, ndr). Io gli dico sempre: “Ragazzi, a quest'età, divertitevi e fate le cose per bene". È l'unica cosa che gli ho detto fin dal primo giorno che hanno iniziato a giocare. Per il resto, non mi sono mai intromesso, perché sono piccoli ed è giusto che facciano il loro percorso. Però, sono bravi, devo dire la verità. E hanno la fortuna di allenarsi in un ambiente splendido come il Viola Park”.