
Il deserto dopo il miraggio. Pioli e il paradosso arabo: chi va nel Golfo torna più povero (di risultati)
“Non si deve mai andare in Arabia, Stefano”. Si potrebbe parafrasare così la celebre battuta del film Amici Miei, adattandola all’attualità della Fiorentina. Perché, a giudicare dagli ultimi anni, l’esperienza araba per molti allenatori europei si è rivelata una sorta di trappola dorata: stipendi milionari, comfort assoluto ma un prezzo altissimo da pagare quando si decide (o si prova) a tornare in Europa. Lo sta scoprendo sulla propria pelle Stefano Pioli, oggi alla guida di una Viola mai così in difficoltà: sei turni di campionato, appena 3 punti, un’identità ancora indefinita e una squadra che fatica a trovare fiducia. Eppure Pioli, fino a un anno fa, era ancora l'uomo "on fire" in grado di vincere uno storico scudetto col Milan: un tecnico concreto e fautore di un calcio moderno. Poi la parentesi araba. Un’esperienza al Al-Nassr chiusa con un bilancio sportivo senza acuti ma che aveva comunque rappresentato una sfida nuova. Al suo ritorno in Italia, però, qualcosa sembra essersi inceppato, come se quell’anno di distanza dal calcio europeo avesse lasciato una ruggine invisibile, un piccolo scarto tra la velocità del gioco e quella delle idee.
Il caso di Garcia e Gerrard
Non è un caso isolato. Negli ultimi cinque anni, chi ha scelto le mete esotiche del Golfo ha quasi sempre pagato pegno una volta tornato nel Vecchio Continente. Rudi Garcia, ad esempio, reduce da una parentesi all’Al-Nassr prima di Napoli, è durato appena pochi mesi al Maradona, travolto da un avvio disastroso e da un ambiente che non ha mai creduto davvero nel suo progetto. Steven Gerrard, dopo un inizio promettente come allenatore in Scozia e in Premier (sulle panchine di Glasgow Rangers ed Aston Villa), si è lanciato nell’avventura saudita con l’Al-Ettifaq: il suo bilancio è stato deludente, con sole cinque vittorie in diciassette partite, fino alla risoluzione del contratto a gennaio 2025. Da allora, l’ex bandiera del Liverpool non ha ancora trovato una nuova panchina. Né in Arabia né in Europa.
Il Mancio a piedi, Jardim dall'altra parte del mondo
Stesso destino, seppur da un’altra prospettiva, per Roberto Mancini: dopo aver lasciato la Nazionale italiana per guidare l’Arabia Saudita, si è ritrovato al centro di critiche e risultati altalenanti, fino alle dimissioni dopo poco più di un anno e attualmente, se pur con un conto in banca di tutto rispetto, è ancora alla ricerca di una nuova avventura. Leonardo Jardim, infine, ex Sporting e Monaco, ha peregrinato tra Arabia Saudita ed Emirati senza più trovare quella stabilità e quella brillantezza che lo avevano reso uno dei tecnici più promettenti d’Europa, fino a ripartire dal Brasile (dal Cruzeiro, attualmente) per tentare di riaccendere la propria carriera.
Via dalla comfort zone
Le panchine del Golfo, dunque, attraggono per cifre astronomiche ma finiscono spesso per essere una comfort zone che isola, un luogo dove le pressioni sono diverse, i ritmi più lenti e la cultura sportiva distante da quella europea. Quando poi si rientra nel circuito tradizionale, l’impatto con la realtà è brutale: i tifosi appaiono meno indulgenti, i media più esigenti e i club pretendono risultati immediati. E l’etichetta di “allenatore da Arabia” rischia di diventare un marchio difficile da scrollarsi di dosso. Pioli lo sa bene: a Firenze non gli manca il sostegno della società ma le prime crepe con la piazza si stanno già vedendo. Il suo calcio, un tempo fluido e riconoscibile, sembra ora stentare a prendere forma. L’impressione è che debba ancora riabituarsi al ritmo della Serie A e alla complessità di un campionato dove ogni dettaglio tattico fa la differenza.






