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"Mio padre aveva un sogno, mettere il cuore in tutto ciò che faceva", il figlio Stefano ricorda DirceuTUTTO mercato WEB
Oggi alle 07:54Altre Notizie
di Redazione TMW

"Mio padre aveva un sogno, mettere il cuore in tutto ciò che faceva", il figlio Stefano ricorda Dirceu

Dirceu José Guimarães, meglio noto solo come Dirceu (pronuncia in portoghese 'dʒiʁˈsew'; Curitiba, 15 giugno 1952 – Rio de Janeiro, 15 settembre 1995)
In occasione della presentazione del libro su Dirceu (Dirceu per sempre) del giornalista Enzo Palladini, Stefano , uno dei 4 figli di Dirceu parla con orgoglio e amore del padre. "Cari amici di Eboli, Io sono Stefano, uno dei quattro figli di Dirceu. Trent’anni fa, mio padre e il suo caro amico Pasquale ci hanno lasciato. Avevo solo nove anni, ma ricordo tutto come se fosse ieri. Mia madre, inconsolabile, era incinta di sette mesi di mio fratello minore, Alessandro, che non ha mai conosciuto nostro padre. E nemmeno lui ha mai potuto conoscere suo figlio. Gli amici aiutarono a organizzare il funerale, ma dopo di ciò mia madre rimase sola con quattro figli da crescere. Come è stato scritto nel libro su mio padre, alcuni club e amici avevano dei debiti con lui, e alcuni investimenti che aveva fatto non diedero il ritorno sperato. Ma, nonostante tutto, anche senza l’aiuto di nessuno, non ci è mai mancato nulla. Non siamo mai stati nella necessità, perché lui ci aveva già protetto, acquistando molti immobili, sale commerciali, terreni, e questo ci ha garantito la migliore istruzione possibile e di vivere, ancora oggi, in uno dei migliori quartieri di Rio de Janeiro. Spesso mi sono chiesto cosa sarebbe diventato dopo… Allenatore? Manager di club? Imprenditore di giocatori? Fondatore di una scuola di calcio? O magari proprietario di una rete televisiva? Probabilmente tutto questo, e anche di più. Una cosa è certa: avrebbe continuato a giocare a calcio. Non si sarebbe mai fermato. Mio padre era così: un polivalente anche nella vita. Amava tutto e tutti e tutti lo amavano. Era un vero campione e accumulava vittorie ovunque andasse. Nel calcio ha iniziato nel Coritiba, diventando campione paranaense e guadagnandosi la convocazione per le Olimpiadi del ’72. Da lì passò al Botafogo, dove fu capocannoniere della Libertadores e convocato per la sua prima Coppa del Mondo nel ’74. Poi andò al Fluminense e vinse il campionato carioca, l’anno successivo passò al Vasco, anche lì campione, e fu convocato per la sua seconda Coppa del Mondo, nel 1978. È proprio con quella maglia che segnò il famoso gol all’Italia, battendo Zoff. In quella Coppa il Brasile fu considerato il “campione morale” e mio padre vinse il Pallone di Bronzo come terzo miglior giocatore al mondo. Poi andò in Messico, quindi all’Atlético de Madrid, dove diventò idolo e fu convocato per la sua terza Coppa del Mondo. Solo dopo il 1980 furono aperte le porte ai giocatori stranieri in Italia, e solo due per club. Così arrivò qui già con 31 anni, ma divenne idolo ovunque passò: Verona, Napoli, Ascoli, Como, Avellino. Nell’anno in cui sono nato, nel 1985/86, già a 34 anni, fu eletto miglior giocatore del campionato. Pensateci… riuscite a immaginare oggi un giocatore del Como eletto miglior giocatore di tutta la Serie A? Quell’impresa gli valse la convocazione per la sua quarta Coppa del Mondo, nel 1986, ma si infortunò durante gli allenamenti e fu escluso dalla lista. Quando ci trasferimmo a Eboli, mia madre non capiva bene, ma ci iscrisse a scuola, ci portò alle lezioni di judo del maestro Rizzo e ci integrò nella comunità che ci ha abbracciato. Mio padre arrivò a Eboli con il desiderio di fare qualcosa di grande. Investì nell’Ebolitana come se fosse la sua squadra: migliorò il campo, gli spogliatoi, fece fare le divise verdeoro. Portò il suo amico dei tempi del Fluminense, Rubens Galaxe, e gli pagò lo stipendio di tasca sua. Non era attaccato al denaro, sapeva che in qualche modo lo avrebbe rifatto. Per lui non era mai una questione di soldi: era questione di amore. Un amore che oggi manca. In un calcio che oggi parla solo di scommesse e business, lui era puro amore. Amore per la palla, per i tifosi, per gli amici, per chiunque lo circondasse. Un uomo buono, dentro e fuori dal campo. Non fu mai espulso e non sarà mai dimenticato da chi l’ha conosciuto. Questo evento non è solo un ricordo di mio padre, ma anche un invito a ricordare che il calcio deve tornare alla sua essenza. Grazie alla famiglia Cavaleiri, a Enzo e a tutti coloro che mantengono vivo il suo lascito." A 42 anni ci ha lasciato a causa di un incidente Il 15 settembre 1995 il calcio mondiale si fermò di colpo. In un incidente stradale, alle porte di Rio de Janeiro, moriva Dirceu José Guimarães, uno dei giocatori più carismatici e imprevedibili della generazione post-Pelé. Aveva solo 42 anni, e con lui se ne andava lo spirito libero di un uomo che non aveva mai voluto appartenere a un solo posto. Nato nel 1953 a Curitiba, figlio di un operaio e di una madre energica che lo spingeva a studiare, Dirceu mostrò da bambino un talento naturale per il pallone. A tredici anni entrò nel vivaio del Coritiba, a diciotto vestì la maglia della nazionale militare, e a venti già segnava ai Giochi Olimpici di Monaco 1972. Proprio con i soldi del trasferimento in Messico, Dirceu comprò il campo dove da bambino giocava scalzo e costruì cinque palazzine, una per ogni membro della sua famiglia: un gesto che racconta molto di più dei suoi gol. Poi arrivò l’Europa. Prima l’Atlético Madrid, poi l’Italia: Verona, Napoli, Ascoli, Como, Avellino. Ovunque lasciò ricordi e sorrisi. Quando Maradona sbarcò a Napoli, lui fece un passo indietro con eleganza, scegliendo di cercare altrove un’altra sfida.