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Tony D’Amico: "Ho imparato che nel calcio non si crede a chi dice la verità"
Oggi alle 07:30Primo Piano
di Redazione TuttoAtalanta.com
per Tuttoatalanta.com

Tony D’Amico: "Ho imparato che nel calcio non si crede a chi dice la verità"

Il direttore sportivo dell’Atalanta ripercorre i suoi esordi da dirigente, i casi più difficili e i colpi mancati: «Il mio rimpianto? Scamacca, non spinsi abbastanza per prenderlo».

Tony D’Amico, intervenuto in una lunga intervista rilasciata a La Gazzetta dello Sport, ha affrontato i capitoli chiave della sua carriera da direttore sportivo. Dall’esordio quasi per caso con Filippo Fusco fino all’approdo a Verona e al successivo salto a Bergamo, D’Amico ha raccontato i momenti più complessi, i casi di mercato più spinosi e le difficoltà di un mestiere logorante, fatto di stress, sigarette e decisioni da prendere in poche ore. Ecco quanto evidenziato da TuttoAtalanta.com

Come sei passato dal campo alla scrivania?
«Tutto nacque grazie a Filippo Fusco. Ci incontrammo alle finali Primavera e mi chiese di fare delle relazioni sui giovani. Poi, a Verona, mi convinse a restare: “Tu sei tagliato per fare il ds”. Io non ci credevo, ma quando lui si dimise nel 2018, mi disse di restare. E così cominciò la mia nuova vita».

C’è un colpo che consideri il più importante?
RISPOSTA: «Dico sempre che il migliore sarà il prossimo. Potrei citare Amrabat, preso in prestito e rivenduto a 20 milioni, oppure Zaccagni, a cui trovammo la chiave per maturare. Ma in realtà il colpo vero è quello che deve ancora arrivare».

E il rimpianto più grande?
«Senza dubbio Gianluca Scamacca. Quando ero a Verona non insistetti abbastanza per prenderlo dal Sassuolo. Un errore che mi porto dietro».

Quanto è logorante il tuo mestiere?
RISPOSTA: «È stressante al punto che, durante le sessioni di mercato, arrivo a fumare due pacchetti di sigarette al giorno. Il telefono lo carico tre o quattro volte, ma non posso permettermi di lanciarlo: se qualcosa mi fa arrabbiare, è più facile che voli una sedia».

Tra i casi più difficili da gestire?
«Il caso Koopmeiners e quello Lookman: situazioni molto simili, dolorose, perché ti costringono a dimenticare l’aspetto umano per guardare solo l’attualità. È la parte più dura del mestiere».

Tra intuizioni, rimpianti e pressioni costanti, Tony D’Amico si conferma un dirigente che vive il suo lavoro con passione e intensità. È consapevole dei difetti del sistema – «non si crede a chi dice la verità» – ma continua a cercare soluzioni, trasformando ogni errore in un’occasione di crescita. Una filosofia che spiega perché l’Atalanta abbia deciso di affidargli le chiavi del suo futuro.

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