
E se il problema non fossero gli allenatori?
E’ uno schiaffo che si sente ancora, la vittoria del Bologna in Coppa Italia, almeno per chi - ancora – mantiene un minimo spirito critico sulle vicende viola. Il ritorno di un trofeo nella piazza emiliana 51 anni dopo l’ultima volta sancisce un altro sorpasso, dopo che il Napoli di De Laurentiis aveva saputo superare il ritardo nell’ingresso nel mondo del calcio sui Della Valle, e che l’Atalanta di Percassi ha consolidato il proprio ruolo in Italia prima e in Europa poi (al gruppo andrebbe comunque aggiunta una riflessione su Lotito e la Lazio).
L’esempio di Saputo
Sotto questo profilo l’esempio arrivato dalla proprietà rossoblu dovrebbe essere illuminante (condizionale d’obbligo). L’arrivo di un dirigente preparato come Sartori ha completato un quadro dirigenziale nel quale già Di Vaio rappresentava il trait d’union tra club e città, in quanto bandiera ed ex calciatore, e soprattutto ha posto il concetto di competenza in cima alla piramide decisionale. Perché nel rileggere anche il mercato del Bologna nemmeno la partenza di Motta, o la cessione di Zirkzee e Calafiori, si sono ripercosse sulla squadra di quest’anno, tanto più alla luce di una guida all’altezza come si è rivelata quella di Vincenzo Italiano.
La sfida vinta di Italiano
Non era una scelta banale quella dell’ex tecnico viola, per molti finito a Bologna solo perché altre big (Napoli in primis) non si erano fidate abbastanza. In realtà, al netto di critiche e attacchi subiti a Firenze soprattutto nell’ultimo anno, Italiano ha vinto la sfida più difficile, quella di subentare a un tecnico reduce da un’annata straordinaria culminata in una storica qualificazione in Champions League. A dispetto di una situazione strutturale tutt’altro che favorevole (anche se a Bologna club e Comune han deciso prima di camminare insieme) il club di Saputo ha saputo cambiare indirizzo nell'ultimo triennio, e nelle sue scelte tecniche ha evidentemente sbagliato (molto) meno di altri senza nemmeno dissanguarsi sul piano economico. Basti pensare all’uomo determinante della finale, quel Ndoye che i viola avevano affrontato in Conference, in semifinale contro il Basilea, finito in Emilia qualche tempo dopo l’arrivo – in prestito – di Jovic a Firenze (lo stesso Jovic che all’Olimpico ha nuovamente confermato una scarsissima vena realizzativa). Forse una coincidenza che i due siano stati nuovamente protagonisti mercoledì sera, forse no.
E se il problema non fosse la guida tecnica?
Un quadro del genere impone riflessioni profonde, non tanto nell’immediato, semmai più sul passato e sulla narrazione del triennio di Italiano (capace di portare rose diverse da quelle attuali a tre finali, o incapace di vincerle?) e quanto meno sul lungo periodo. Perché in un momento in cui le speranze di una qualificazione europea sono ridotte al lumicino per la Fiorentina di Commisso strutturare una ripartenza importante, nell’anno del centenario, pare il minimo. Un cambio di strategia che almeno si avvicini a quanto sono riuscite a fare Napoli, Atalanta e Bologna, e che si ripercuota su ogni ambito societario, dalla dirigenza alle scelte sul mercato (modalità di arrivo dei calciatori incluse, visto che i tanti prestiti di questa stagione non hanno fornito grandi risposte) fino al tecnico fresco di un inatteso prolungamento d’accordo. Una conferma, quella di Palladino, oggi salutata dalla stragrande maggioranza della piazza come un altro errore, quasi che la lezione di mercoledì firmata Vincenzo Italiano (uno che in due mercati invernali al quarto posto in classifica non ha mai goduto di rinforzi all’altezza) non avesse insegnato nulla. Spingendo a credere – forse erroneamente – che i problemi della Fiorentina nelle ultime stagioni siano stati soprattutto gli allenatori.







