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Cinquant'anni senza Armando Picchi
mercoledì 26 maggio 2021, 20:48Editoriale
di Marco Ceccarini
per Amaranta.it

Cinquant'anni senza Armando Picchi

Livorno – Era il 1959 ed ancora giocava in Serie C. Nato a Livorno il 20 giugno 1935, aveva 24 anni e in carriera aveva fatto tanta gavetta militando, prima di approdare al Livorno nel 1954, nei tornei dilettantistici della Toscana. Con il Livorno aveva fatto un campionato di Serie B nel 1955-56, poi con gli amaranto era tornato in Serie C.

Il cuore di Armando Picchi cessò di battere il 26 maggio 1971, esattamente cinquant’anni fa. Aveva appena 36 anni. In neanche dieci anni, quando al termine della stagione 1968-69 smise di giocare dopo aver vestito per due campionati anche la maglia del Varese, dalla Serie C era arrivato all’Inter e alla Nazionale, via Spal, affermandosi come il miglior difensore d’Italia. Dal 1962 al 1966, con l’Inter, aveva vinto tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali.

Il giorno dei suoi funerali, il 28 maggio, tutta Livorno si fermò. I negozi abbassarono le saracinesche. Uomini e donne andarono a dargli l’ultimo saluto allo stadio d’Ardenza.

Appena sette anni prima, esattamente il 27 maggio 1964, aveva alzato la prima Coppa dei Campioni nel cielo di Vienna. Il ciclo della Grande Inter di Helenio Herrera non sarebbe stato lo stesso senza di lui.

La prima trasformazione tattica Picchi l’aveva avuta nel Livorno. Fino a quel momento aveva giocato mezzala od interno. Vinicio Viani e Mario Magnozzi, in quegli anni Cinquanta disastrosi per la squadra amaranto, intuirono che la maggiore dote di Picchi era l’abilità ad interdire pur avendo velocità e capacità di costruire il gioco. Venne spostato dunque in difesa, come terzino destro. E da terzino si guadagnò, ben presto, il posto da titolare.

Fu il fratello Leo Picchi, ex calciatore di Serie A, a perfezionarne il gioco. Gli suggerì, quando entrava in possesso della sfera, di rilanciarla lontano, ogni tanto, e non solo di ripartire con la palla al piede o servire il compagno. Con quel nuovo modo di giocare, Armando entrò nel cuore dei tifosi del Livorno.

Paolo Mazza, presidente di quella straordinaria squadra che fu la Spal a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, acquistò nell’estate del 1959 il cartellino di Picchi dal Livorno, che alla Spal cedette anche l’altro difensore Costanzo Balleri, e lo rivendette all’Inter l’anno dopo a peso d’oro.

Già nella Spal fece vedere di essere in grado di recuperare il tempo perduto. L’impostazione datagli da Magnozzi ed i consigli del fratello Leo, ma anche dell’altro fratello Mario Picchi, a sua volta ex calciatore del Solvay in Serie C, avevano dato i loro frutti. Con Balleri, detto Lupo, formò una formidabile coppia di terzini anche in A, tanto che la Spal, a fine anno, vendette Picchi all’Inter e Balleri al Torino, che però a novembre, nel mercato di riparazione che allora si svolgeva subito dopo l’inizio del torneo, girò Lupo all’Inter, che dunque ricompose la coppia di difensori laterali.

Ma se a portarlo in Serie A fu Mazza, colui che gli dette l’opportunità di esprimere al meglio le sue capacità di regista difensivo, fu l’allenatore dell’Inter, Helenio Herrera, detto il Mago. Fu infatti Herrera a trasformare Picchi in battitore libero. E fece ciò perché intuì che Picchi, sicuramente più adatto a giocare come terzino che come mezzala, non era tuttavia un terzino puro, ma aveva visione del gioco e capacità di impostazione.

Picchi aveva una grande intelligenza e uno spiccato senso tattico. E poi accanto aveva Aristide Guarneri, grande colpitore di testa, che lo soccorreva sui palloni alti. Una volta in possesso della sfera, grazie alla battuta potente e al nitido destro, era in grado di riavviare l’azione cercando in genere Luisito Suarez, colui che poi serviva gli assist agli attaccanti, oppure girava la sfera a Guarneri.

Era un leader, Picchi. Un leader naturale. Era il capitano della Grande Inter, riflessivo ed altruista. Ed era il capitano non perché la società un giorno lo aveva chiamato e gli aveva dato la fascia, ma perché quel ruolo gli era stato attribuito, spontaneamente, dallo spogliatoio, dai suoi compagni che dicevano che sapeva dirigere le operazioni di gioco senza prevaricare i compagni.

Il 27 maggio 1964 guidò l’Inter alla conquista della prima Coppa dei Campioni. E dopo la leggendaria notte del Prater di Vienna, nella notte in cui l’Inter schiacciò il mitico Real Madrid di Francisco Gento, Ferenc Puskas e Alfredo Di Stefano, Armando Picchi diventò per tutti Penna Bianca, così come lo chiamò Gianni Brera che, dopo averne esaltato la perfetta regia difensiva, lo battezzò in quel modo per le tempie bianche e il volto scavato da capo indiano.

Una polemica con Gianni Rivera, l’Abatino, regista del Milan, costò a Picchi la convocazione da parte di Edmondo Fabbri per i Mondiali d’Inghilterra del 1966. Ma senza la difesa guidata da lui, l’Italia venne eliminata dai dilettanti della Corea del Nord.

Picchi riuscì a vestire nuovamente la maglia azzurra solo dopo i Mondiali quando, cacciato Fabbri, la Nazionale venne affidata ad Herrera ed a Ferruccio Valcareggi e poi solo a quest’ultimo. Il reintegro di Picchi fu scontato.

Eppure proprio Herrera, che nel frattempo era tornato ad occuparsi solo dell’Inter e con il quale erano iniziate delle incomprensioni, gli assestò il colpo forse più terribile. Nell’estate 1967, infatti, a seguito di ulteriori polemiche, pretese che l’Inter lo cedesse al Varese.

Il trasferimento al Varese non gli costò il posto in Nazionale. E difatti in maglia azzurra giocò fino a quando, il 6 aprile 1968, subì un brutto infortunio a Sofia durante la gara di andata dei quarti di finale del campionato d’Europa. Picchi riportò una commozione cerebrale e la frattura del pube.

Avrebbe voluto giocare i Mondiali del Messico 1970, ma un po’ a causa della retrocessione in Serie B del Varese nel 1969, un po’ perché non trovò nessuna squadra di livello disposta ad ingaggiarlo dopo il brutto incidente, Picchi decise di smettere con il calcio giocato iniziando l’esperienza da allenatore.

L’occasione gliela offrì il Livorno. La squadra, nella stagione 1969-70, era affidata ad Aldo Puccinelli che, a fronte di risultati che non arrivavano e con la squadra in piena zona retrocessione, venne esonerato. Al suo posto fu chiamato Picchi. La squadra, in un battibaleno, risalì la classifica e per un po’ si tolse la soddisfazione di inserirsi nella lotta per la promozione. Poi i ritmi si abbassarono.

Ma ormai la strada era tracciata. Picchi aveva impressionato gli addetti ai lavori. Italo Allodi, ex general manager dell’Inter e in quel momento dirigente della Juventus, gli affidò la guida di una squadra giovane e da costruire. Volle Picchi per iniziare un ciclo di soddisfazioni e di successi per il club bianconero, ritenendolo l’uomo giusto.

La breve esperienza juventina non fu tutta rose e fiori. I risultati tardarono ad arrivare, qualche giocatore mugugnò, ma nessuno mise in discussione le qualità del tecnico. Con lui presero il volo calciatori come Franco Causio, Roberto Bettega, Luciano Spinosi, Fabio Capello. Quel campionato 1970-71, che Armando fece appena in tempo a veder finire, si concluse per la Juventus con un quarto posto. Ma i semi gettati da Picchi dettero i primi frutti già l’anno successivo con la conquista del primo di una lunga serie di scudetti da parte della Juventus del suo ex vice Čestmír Vycpálek e poi di Carlo Parola e Giovanni Trapattoni.