
L'anticipo di Galli - Cosa resterà di San Siro? Cosa resterà di noi?
La prima volta a San Siro avevo 6 anni: era il 1969, mio cugino e un amico mi portarono, dopo aver convinto i miei genitori, a vedere Milan-Celtic, andata dei quarti di finale di Coppa dei Campioni. Il Milan non andò oltre lo 0-0 con un goal annullato a Pierino Prati che si ripeterà a Glasgow, nella gara di ritorno, segnando il goal, stavolta valido, che regalerà ai rossoneri la vittoria e l’accesso alla semifinale contro il Man United. Dei dettagli della partita con gli scozzesi, che si giocò sotto un’intensa nevicata, a essere sinceri ricordo poco o niente: ma l’atmosfera dello stadio mi toccò in profondità e mi regalò la prima di una lunga serie di emozioni.
San Siro, quello colorato di rossonero, da quel giorno divenne una calamita da cui non fui più capace (né lo volevo, ovviamente) di staccarmi. Tornai però allo stadio solo qualche anno dopo: popolari, parterre o distinti, non importava in quale settore, l’importante era esserci. Arrivò anche il tempo della frequentazione della curva. San Siro, il tifo, la sua atmosfera ti spingevano a fare cose insensate come provare a impossessarci degli estintori (saranno stati i mitici “Estintori Meteor”?) per spruzzare la schiuma sui tifosi. Sempre nelle vesti di tifoso, San Siro rimane memorabile, quando, dai distinti vidi Gianni Rivera parlare ad un microfono per convincere i tifosi a lasciare la parte non agibile del secondo anello dello stadio perché altrimenti la partita non avrebbe avuto inizio decretando la sconfitta a tavolino. Ci avevano provato tutti ma solo lui, il numero10, il Capitano vi riuscì. La gara terminò 0-0, il Milan vinse il suo decimo scudetto e la Stella. Al fischio finale San Siro diventò una bolgia, qualcosa di unico.
E poi ci sono le emozioni da giocatore, il boato dei tifosi all’ingresso della squadra al mio esordio in Serie A, contro il Verona nel 1983. Allora si accedeva al terreno di gioco da un angolo sul lato opposto alla Curva Sud: alzai gli occhi e la muraglia rossonera sembrava venirmi addosso! Molti sono i momenti indimenticabili che mi legano alla Scala del calcio: il goal di Mark Hateley con quell’imperioso stacco di testa su Collovati (ho ancora il poster in casa). Un istante che resterà nel tempo, uno stacco e uno scatto iconico. Nel 1986, con l’arrivo della proprietà Fininvest e del Presidente Berlusconi, iniziò l’epoca delle vittorie. Il primo scudetto, l’undicesimo per il Club, arrivò nel maggio del 1988, dopo il pareggio per 1-1 a Como. Dallo stadio Sinigaglia l’autobus ci portò direttamente a San Siro, la nostra casa, stracolma di tifosi. Anche l’ultimo scudetto, nel 1996, il quinto per me, ottenuto due settimane prima con la vittoria a Firenze, ebbe come teatro dei festeggiamenti la Scala del calcio. Vincemmo per 7-1 con la Cremonese e in quell’occasione Mauro Tassotti diede il suo primo addio al calcio. Dall’87 al ’96, dieci stagioni di successi, un susseguirsi di emozioni che mi legano a San Siro: su tutte la serata del 19 aprile del 1989 in cui battemmo il Real Madrid 5-0 nella semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni: indimenticabile la ola, l’onda dei tifosi per festeggiare ogni goal, San Siro che trema, San Siro che vive. Infine lasciatemi ricordare un’altra serata speciale: il 28 ottobre 1997 San Siro vestito a festa per celebrare l’addio al calcio del CAPITANO, del “Piscinin”, del “6persempre”, Franco Baresi.
Ed ora il presente. Da poco il Comune di Milano ha deciso la vendita di San Siro a Milan e Inter.
Negli anni, il capoluogo lombardo è cambiato e anche San Siro è cambiato, ma rimane un punto fisso, rassicurante, immobile, maestoso a guardare. È probabile che, nel giro di qualche anno, non lo vedremo più: verrà abbattuto lasciando, forse, qualcosa della sua struttura (in particolare del secondo anello, lo strato considerato più pregevole architettonicamente) a futura memoria. C’è la sostenibilità da rispettare, ci sono le normative Uefa a cui adeguarsi per poter accogliere le manifestazioni internazionali. Poteva essere l’occasione perché ciascuna delle squadre di Milano avesse il suo stadio seguendo l’esempio di Londra, la capitale del calcio europeo, ma non sarà così: troppo complicato per la burocrazia italiana e forse troppo oneroso per un calcio italiano che – anche nei suoi attori più prestigiosi – si scopre povero rispetto ad altri campionati europei.
Del resto pare che giocare tra le mura amiche, davanti ai propri tifosi, non sia poi così indispensabile, non interessi più a nessuno, se non proprio a loro, ai tifosi. E allora la domanda che dobbiamo farci non è cosa resterà di San Siro, perché quello più o meno lo sappiamo, ma è cosa resterà di noi e della nostra romantica idea di calcio che, ancor prima di tutti i (sacrosanti) diritti TV, merchandising, terze e quarte maglie, si esprime innanzitutto nel rapporto fra il pubblico e i giocatori, in uno spazio che (letteralmente, non per modo di dire) vibra per una grande passione condivisa.
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