
Calcio e Palestina, il grido di Ahmed Rjoob: "I nostri bambini muoiono con le maglie della Serie A"
"Il 6 novembre 2023, a dieci giorni da una partita di qualificazione al Mondiale, l’esercito israeliano è entrato nella mia casa a Hebron: hanno distrutto i mobili, terrorizzato i miei figli e mi hanno intimato di consegnarmi, perché ai loro occhi io sarei un terrorista". Il telefono in redazione ieri sera è squillato tardi, quando la giornata lavorativa sembrava ormai conclusa. Dall’altra parte della linea c’è Ahmed T. Rjoob, una delle voci storiche del giornalismo sportivo palestinese, ex addetto stampa della Nazionale. Una vita spesa tra microfoni, campi e spogliatoi, che all’improvviso si è trasformata in un incubo. La sua storia potrebbe benissimo essere quella di un cronista qualsiasi: qualcuno che vive di sport, che lo racconta con passione, e che un giorno si trova invece costretto a narrare qualcosa di infinitamente più complesso. La sua storia, insomma, potrebbe essere la mia. O la vostra.
Oggi Rjoob e la sua famiglia vivono in Qatar, al sicuro. Questa è l’unica buona notizia, se vogliamo trovarne una. "Lavoravo come speaker per la TV palestinese e come coordinatore media della Nazionale, ma la guerra mi ha impedito di tornare dopo la Coppa d’Asia", ricorda a TuttoMercatoWeb.com con una voce che alterna fierezza e amarezza. Fino a poco tempo prima era in Giordania, impegnato nei preparativi per le qualificazioni mondiali e per il torneo continentale. "Intanto continuavo a pubblicare sui miei profili social, a rilasciare interviste, a parlare dei bambini uccisi da Israele. Non facevo altro che riportare la realtà". Rjoob faceva giornalismo e denuncia, partendo dal calcio per raccontare inevitabilmente una quotidianità sempre più minacciosa per lui e per la sua gente. Proprio per questo sono arrivate le intimidazioni, sempre più dirette. "Mi hanno chiamato più volte intimandomi di tacere, di smettere di denunciare i loro crimini. Hanno persino minacciato di imprigionare mia moglie e i miei figli. Sono diventati folli: per loro chiunque ormai è un terrorista".
La sua testimonianza è diretta, senza filtri, ed emerge ben chiara la devastazione dello sport palestinese, travolto insieme alla società civile. "Lo sport in Palestina è stato distrutto: hanno ucciso giocatori, arbitri, allenatori, giornalisti e tifosi, hanno raso al suolo stadi e strutture. Oggi il sogno di un atleta non è più gareggiare, ma semplicemente riuscire a mangiare o a bere". Sembra quasi stupido chiedergli come stia... "Ovviamente non sto bene, il mio popolo viene ucciso, i bambini muoiono, le donne muoiono e lo sport è distrutto. I sogni di tutti sono finiti", rincara la dose. Eppure, in questo scenario, resiste un filo di speranza. "Sono sempre in contatto con i giocatori della Nazionale. Sono gli unici a non arrendersi, e nei loro club - tutti fuori dalla Palestina - continuano a fare bene". Per Rjoob lo sport resta così un linguaggio universale, capace di superare confini e divisioni. "Lo sport è un messaggio umanitario. Molti atleti hanno mostrato solidarietà, e speriamo che questo sostegno continui e cresca".
Un pensiero speciale va inevitabilmente all’Italia, proprio all'indomani dello sciopero generale che ha voluto richiamare l’attenzione sul dramma palestinese in tutto il nostro Paese. "Il popolo italiano è un popolo fratello. Da sempre è stato vicino alla Palestina e non dimentichiamo quando, nel 1982, l’Italia dedicò il Mondiale alla nostra gente. Amiamo molto l’Italia: tanti bambini sono morti in guerra indossando le maglie di Juventus, Inter, Milan, Roma, Lazio, Fiorentina e Napoli. Queste iniziative non ci sorprendono, perché arrivano da un grande popolo".
A un certo punto, mentre parliamo, su WhatsApp mi arriva a sorpresa una sua foto: Ahmed sorride con addosso una maglia azzurra dell’Italia, insieme a una confessione: "Tifo Juve da sempre". Un gesto semplice, ma che diventa simbolico, quasi un ponte. Quando è tempo di saluti però la sua voce si abbassa, si fa nuovamente più fragile e vulnerabile. "Spero che l’Italia continui a esserci vicina. Ma soprattutto mi auguro che il mondo non smetta di ascoltare la voce della Palestina". La linea cade e resta il silenzio. Le sue parole continuano a rimbombare, ancora e ancora, nella mia testa. È la voce di un cronista che ha perso la patria, ma non la forza di raccontarla. In fondo, per Ahmed Rjoob il calcio resta questo: l’ultimo stadio da cui far sentire il grido di un popolo che chiede di non essere dimenticato.
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