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TUTTO mercato WEBD'Ambrosio si racconta: "Inter, ho un rimpianto. Inzaghi era spensierato prima delle finali"
Danilo D'Ambrosio si è ritirato da poco e ha voluto ripercorrere le tappe della sua carriera ai microfoni di Radio TV Serie A: "Sono nato a Napoli ma ho vissuto a Caivano, un paesino della provincia, fino a tredici anni quando sono andato via di casa per inseguire il mio sogno: diventare un giocatore di calcio. Lasciare casa all’inizio è stata molto dura, io ora ho due bambini piccoli e se mi dovessi immaginare di lasciarli partire a 13 anni mi vengono i brividi. I miei genitori hanno fatto una scelta molto coraggiosa, è grazie al loro coraggio e ai loro sacrifici se sono diventato ciò che sono ora. Mi ricordo quando, dopo essere stato acquistato dalla Salernitana, sono arrivato nel convitto di Salerno: dopo aver fatto il giro delle camere i miei genitori mi dissero 'Se non ce la fai torniamo a casa' e in quel momento fui davvero combattuto. Da un lato infatti volevo tornare a fare la mia vita ma dall’altro avevo una grande voglia di arrivare quindi, in maniera lucida, risposi loro che ce l’avrei fatta”.
Poi è stata la volta di trasferirsi a Firenze.
“Prima della Fiorentina c’è stato un periodo dove avevo ricevuto attenzioni dal Chelsea, i miei genitori mi consigliarono di non pensare all’aspetto economico – mi avevano offerto delle belle cifre – ma di concentrarmi sul mio percorso che era appena iniziato. Sono andato dunque alla Fiorentina dove però ai classe ’88 ancora non facevano contratti professionistici ma dopo un paio di mesi per me fecero un’eccezione. Alla fine i consigli dei miei genitori si sono rivelati giusti soprattutto perché ho avuto la possibilità di giocare tanto. Dopo aver giocato con la Fiorentina nel campionato Primavera volevo misurarmi con il calcio dei grandi e sono andato in successione al Potenza, poi alla Juve Stabia, e infine al Torino dove con mister Ventura abbiamo raggiunto la promozione in Serie A”.
Quanto è stato importante Ventura?
"È stato il primo allenatore ad avermi insegnato l’aspetto tattico del calcio e a capirne i principi. Oltre a questo, del mister mi è rimasto l’aspetto umano e professionistico che mi sono portato dietro per tutta la carriera. Pretendeva infatti che ogni volta che scendevamo in campo accendessimo la cosiddetta spina in modalità on: una volta dentro al rettangolo dovevamo dare tutto quello che avevamo per 90’ cosa che soprattutto da giovane non è automatica. Per quanto riguarda il mio ruolo nello specifico mi ha insegnato l’importanza della concentrazione, dell’essere focus in ogni singola frame di gioco, perché ogni azione non è mai uguale a quella precedente, ogni momento della partita va vissuto come unico. È così che si sviluppa l’esperienza”.
Ha avuto grande determinazione in campo.
“Ho sempre visto il mio obiettivo davanti a me e mi focalizzavo su di esso ma nel mentre guardavo anche i giocatori più bravi per imparare da loro e migliorare, nella mia carriera ho giocato infatti con tanti giocatori e allenatori forti. Ho sempre cercato di prendere quello che potevo a livello tecnico-tattico dai compagni e allenatori, per esempio: la disciplina di Conte, la spensieratezza di Inzaghi nel preparare le finali, la consapevolezza di Mancini, la visione di gioco di Spalletti... tutti aspetti che hanno fatto in modo che io crescessi anno dopo anno”.
Chi sono gli avversari più forti affrontati?
“Ho giocato contro Ronaldo e Messi: sono campioni, in qualsiasi minuto della partita possono farti fare brutte figure. Quando giochi contro di loro devi essere concentrato per tutta la partita ma per quanto puoi impegnarti hanno delle qualità al di sopra di tutti. Altri sono stati Mbappé, Higuain, Cavani... Appena arrivato all’Inter ho avuto l’onore di allenarmi con giocatori dal calibro di Zanetti, Milito, Cambiaso, Samuel, tutti giocatori che sono diventanti delle istituzioni del club. Vedendo la loro voglia di vincere, la loro determinazione, il loro modo di allenarsi e migliorarsi anche ad un’età avanzata, ho capito che se volevo diventare un giocatore migliore dovevo apprendere da loro. Alla base di tutto però c’è l’umiltà: chi è umile riesce ad analizzarsi nel migliore dei modi in maniera sincera, questo è stato il mio segreto”.
Il Grande Torino e la maglia granata. Che significato hanno avuto?
“Indossare la maglia del Toro è sicuramente un’emozione forte per tutto quello che rappresenta: vivi e percepisci l’amore dei tifosi per i colori, la storia e la squadra che è stata il Grande Torino. Vestire i colori granata non è semplice, è allo stesso tempo un vantaggio e uno svantaggio. Ogni volta che salivamo a Superga era per me un’emozione forte, un qualcosa che ti rimane dentro”.
Ci parli della sua avventura all'Inter.
“Sicuramente all’inizio è stato un po’ difficile, c’era una componente emotiva molto importante: ho sempre tifato Inter e non è facile indossare la maglia e onorare la squadra per cui tifi. Se non sei bravo a trovare il giusto equilibrio rischi di far prevalere la parte emozionale su quella razionale. All’inizio non è stato facile: erano anni difficili per la squadra che era in una fase di ricostruzione, io ho sempre cercato di concentrarmi su me stesso e sul mio lavoro impegnandomi al massimo. Sapevo che con il lavoro sarebbero arrivati i risultati e infatti sono rimasto all’Inter per dieci anni che non è poco”.
Poi le cose sono migliorate.
“Spalletti ha iniziato la ricostruzione dell’Inter proseguendo il lavoro di Pioli - una grande persona e un grande allenatore secondo me - dando linee ancora più dure ma sotto di lui siamo riusciti a tornare in Champions per due anni consecutivi. Con Conte il primo anno siamo arrivati a pochi punti dal vincere il campionato e giocando la finale di Europa League. Il secondo anno invece abbiamo vinto lo scudetto, la più grande soddisfazione della mia carriera sebbene non siamo riusciti a festeggiare insieme ai nostri tifosi per via del Covid. Quando si vince infatti, più che per noi stessi siamo felici di regalare una gioia ad altri. Uno dei rimpianti della mia carriera è stato durante la finale di Europa League quando negli spogliatoi non penso di essere riuscito a trasmettere questo concetto ai miei compagni: vincere per le nostre famiglie a casa che ci guardano”.
Dopo la carriera come si trova?
"Smettere di giocare per me non è stato uno shock, ho sempre immaginato il mio futuro dopo il calcio e piano piano ho costruito il mio presente. C’è bisogno di equilibrio, pazienza, una giusta analisi e di lavorare giorno per giorno, proprio come in allenamento”.
Qual è la cosa che ha fatto la differenza per lei?
"L’equilibrio è stato una componente fondamentale durante tutta la mia carriera, è una qualità che va creata e alimentata dove alla base ci vuole sempre un’analisi quotidiana se stessi. Non conta solo giocare o non giocare, vincere o retrocedere, conta quello che un giocatore fa per migliorarsi di giorno in giorno. Io mi sono sempre fatto un’analisi sincera di ciò che avevo fatto e non avevo fatto in campo e di quello che potevo fare di più”.  
Ha sempre tifato Inter.
"In ogni squadra in cui ho giocato ho sempre dato il massimo e tutte mi sono rimaste dentro. Un aneddoto: quando ero al Torino, essendo tifoso interista ho guardato la finale di Champions e una volta finita la partita mi sono detto che era lì che dovevo arrivare: nella squadra per cui ho sempre tifato".
		
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