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La sentenza completa che condanna Dani Alves: prove schiaccianti e una sola attenuante

La sentenza completa che condanna Dani Alves: prove schiaccianti e una sola attenuanteTUTTO mercato WEB
© foto di Federico De Luca
giovedì 22 febbraio 2024, 11:41Serie A
di Michele Pavese

Il verdetto tanto atteso è arrivato poco fa: Dani Alves è stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere per violenza sessuale su una giovane donna, episodio avvenuto alla fine del 2022 in una discoteca di Barcellona. Inoltre, l'ex giocatore di Barcellona, Juventus e Paris Saint-Germain è stato condannato a cinque anni di libertà vigilata (da scontarsi alla fine della pena detentiva), nove anni di divieto di avvicinarsi alla vittima e a versare 150.000 euro di risarcimento.

Questo il testo della sentenza: "Il tribunale della sezione 21 del Tribunale provinciale di Barcellona condanna l'atleta Daniel Alves a 4 anni e sei mesi di reclusione per stupro, alla libertà vigilata per un periodo di 5 anni, che verrà applicata una volta scontata la pena detentiva; al divieto di avvicinarsi all'abitazione o al luogo di lavoro della vittima entro un raggio di 1.000 metri e di comunicare con lei con qualsiasi mezzo per un periodo di 9 anni e 6 mesi; parimenti , è condannato alla pena dell'interdizione speciale per l'esercizio di un impiego, di un pubblico ufficio, di una professione o di un mestiere riferiti ai minorenni per la durata di 5 anni, da applicarsi anche una volta scontata la pena detentiva; a un risarcimento di 150.000 euro per moralità danni e lesioni; alla sanzione di 2 mesi di multa con indennità giornaliera di 150 euro, con sussidiaria responsabilità personale in caso di mancato pagamento dell'articolo 53 cp per un reato minore di lesioni; e al pagamento delle spese procedurali".

Come riporta Marca. la Corte ritiene che ci siano prove sufficienti contro Alves: "L'imputato ha afferrato bruscamente la denunciante, l'ha gettata a terra e, impedendole di muoversi, l'ha penetrata vaginalmente, anche se la denunciante ha detto che voleva andarsene. Si tratta di assenza di consenso, con uso di violenza anche carnale.

Perché sussista violenza sessuale non è necessario che si verifichino lesioni fisiche, né che vi siano prove di un'eroica opposizione da parte della vittima ad avere rapporti sessuali. Nel caso specifico troviamo anche lesioni sulla vittima che rendono più che evidente l'esistenza di violenza per forzarne la volontà, con successivo accesso carnale che non viene smentito dall'imputato".

La Corte precisa nella sentenza che "non solo il consenso può essere revocato in qualsiasi momento, ma è anche necessario che il consenso venga prestato per ciascuna delle varietà sessuali nell'ambito di un incontro sessuale e non vi è alcuna prova che, almeno per quanto riguarda la penetrazione vaginale, la denunciante abbia dato il suo consenso. L'imputato ha anche prevalso sulla volontà della vittima con l'uso della violenza".

La Corte "è giunta alla convinzione dei fatti avendo valutato positivamente la testimonianza della vittima al processo orale, insieme ad altre prove che corroborano la sua versione". I magistrati ritengono che, nel nucleo essenziale della sua deposizione, la vittima è stata "coerente e soprattutto persistente, non solo durante tutta l'istruttoria del caso, ma anche in seduta plenaria senza che si riscontrasse la presenza di rilevanti contraddizioni rispetto a quanto ha affermato in precedenza nell'inchiesta". La sentenza spiega che "esiste un riscontro periferico sufficiente a sostenere la versione del denunciante riguardo alla penetrazione vaginale non consensuale.
Inoltre, le lesioni al ginocchio sono la conseguenza della violenza usata dal sig. Alves per piegare la denunciante e metterla così a terra. È chiaro che la lesione è avvenuta in quel momento, in quanto lavorava nella discoteca dove si sono verificate le lesioni".

Il comportamento della vittima dopo i fatti. "Abbiamo prove sufficienti per dimostrare le condizioni della vittima poco dopo aver lasciato il bagno nella cabina. Non conosceva il signor Alves né sembra che nutrisse alcun tipo di animosità nei confronti dell'imputato; Si sono incontrati il ​​giorno degli eventi, pochi istanti prima che si verificassero. Non è stato indicato alcun litigio, invidia, gelosia o altro motivo che lo abbia portato a riferire fatti che secondo l'imputato non sarebbero accaduti".

Al riguardo, il Tribunale aggiunge che "da tutto quanto riferito dalla vittima, dai verbali di assenza per malattia forniti, dalle perizie psicologiche e psichiatriche, concludiamo che la denuncia, a priori, porterebbe al denunciante più problemi che vantaggi". E precisa: "la vittima aveva timore di denunciare i fatti per le possibili ripercussioni mediatiche che ciò avrebbe potuto avere e per il fatto che la sua identità avrebbe potuto essere rivelata. Tale timore potrebbe essere stato confermato dal fatto che hanno recentemente denunciato la fuga di dati personali del denunciante".

Si aggiunge nella sentenza che non si può parlare nemmeno di interesse economico visto che "prima del dibattimento la difesa aveva offerto la somma di 150.000 euro da consegnare alla ricorrente, ella avrebbe potuto accettare tale somma, rinunciando ha seguito l'esercizio delle azioni civili e penali, ma non lo ha fatto, presentando un documento, datato 11 dicembre 2023, in cui si precisava che non era desiderio del denunciante ricevere alcuna somma nel corso del procedimento giudiziario, salvo quanto potrebbe essere stabilito dalla Camera nel caso in cui venga pronunciata sentenza di condanna." Insomma, non vi è alcuna prova, si legge nella sentenza della Corte, "dell'esistenza di intenzioni pretestuose o di circostanze che consentano di dubitare della credibilità della vittima al riguardo".

La Corte sezione 21 spiega nella sentenza che "praticamente nella maggior parte dei reati contro la libertà sessuale, soprattutto quando l'elemento fondamentale è l'esistenza del consenso, le prove si basano principalmente sulle dichiarazioni della vittima. In alcune occasioni corroborate dall'esistenza di lesioni , resti biologici o altre prove schiaccianti. Ma l'esistenza di lesioni non è necessaria per la commissione di un reato di violenza sessuale, né in tutti i casi ci troviamo di fronte all'esistenza di resti biologici". E precisa che "ciò non significa che la mera presentazione della denuncia comporti l'accreditamento dei fatti denunciati, nemmeno quando tale denuncia viene ratificata in plenaria e i fatti vengono spiegati dalla vittima. Nelle aggressioni sessuali non vi è presunzione di veridicità della vittima né le sue dichiarazioni prevalgono su quelle dell’imputato”. Si precisa inoltre che "in tal senso, le recenti riforme legislative in materia di delitti contro la libertà sessuale non hanno modificato i criteri di valutazione delle prove, privilegiando la dichiarazione della vittima rispetto a quella dell'imputato, né sono state" alterate le accuse volte a provare la commissione del delitto”.

Così, spiega la Corte, "per valutare la versione della vittima, requisito particolarmente rigoroso quando ci si trova di fronte a singole dichiarazioni destinate a fungere da prova per l'accusa, bisogna distinguere tre momenti: il racconto di quanto accaduto prima entrando nel bagno della suite privata, il racconto di ciò che è accaduto all'interno e ciò che ha spiegato su quanto accaduto dopo questi eventi.
E, a questo proposito, la sentenza precisa in merito al consenso che "né il fatto che la denunciante abbia ballato in modo sensuale, né che abbia avvicinato le natiche all'imputato, o che abbia addirittura potuto abbracciare l'imputato potrebbe far supporre che abbia dato il suo consenso a tutto ciò che potrebbe accadere successivamente".

Il tribunale ha valutato favorevolmente il racconto della vittima "salvo le lacune riscontrate nel racconto di quanto accaduto prima dell'ingresso nella cosiddetta Suite" e "non ha dubbi che la penetrazione vaginale della denunciante sia avvenuta con violenza", tenendo conto sia il suo racconto di quel momento che è marginalmente corroborato dalle prove che abbiamo menzionato".

Riguardo all'imputato e alla sua versione dei fatti, la sentenza ricorda che "egli non ha alcun obbligo di testimoniare, e per farlo la mancanza di credibilità delle sue dichiarazioni non costituisce prova della sua colpevolezza, poiché ha anche la costituzionalità diritto di non testimoniare contro se stesso. Né il fatto che l'imputato risulti contraddittorio o che il suo racconto non corrisponda, in tutto o in parte, a quanto accaduto non significa che egli debba essere considerato semplicemente l'autore dei fatti; non si può comprendere come prova costitutiva dell'accusa".

Il tribunale applica la circostanza attenuante del risarcimento del danno all'imputato Daniel Alves. È dimostrato, si legge nella sentenza, "che prima del dibattimento la difesa ha depositato sul conto del Tribunale la somma di 150.000 euro da consegnare alla vittima, senza alcun tipo di condizione".
Secondo il tribunale, "sebbene l'atto d'accusa stabilisca l'obbligo dell'imputato di pagare una cauzione di 150.000 euro, il fatto che egli abbia dichiarato di chiedere che tale somma venga consegnata alla vittima indipendentemente dall'esito del processo, esprime una volontà riparatrice che deve essere considerata come una circostanza attenuante”.
Al tempo stesso, la sentenza precisa che "la circostanza modificante della responsabilità penale dell'ubriachezza non sussiste, poiché non è stato dimostrato in udienza plenaria l'impatto che il consumo di alcol potrebbe avere sulle facoltà volitive e cognitive dell'imputato".

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