ESCLUSIVA TA - Emanuele Arioli: "La testa vale quanto le gambe. L’Atalanta può rinascere se ritrova coraggio e identità"
Quando una squadra come l’Atalanta attraversa un momento complesso, la tentazione è guardare solo a tattica e condizione fisica. Per Emanuele Arioli, psicologo dello sport e co-fondatore del centro medico sportivo Perform di Bergamo, la vera chiave è più profonda: mente, identità, fiducia. In questa intervista esclusiva ai microfoni esclusivi di TuttoAtalanta.com, Arioli offre un’analisi lucida — tecnica ma umana — del momento della Dea, indicando cosa serve per rialzarsi e ritrovare se stessi.
Quando una squadra come l'Atalanta attraversa un momento di difficoltà come questo, quanto conta la testa rispetto alle gambe e alla tattica?
«Conta molto, in modo proporzionale ad altre cose. Uno sportivo è un puzzle a quattro pezzi: tattica, tecnica, preparazione atletica e testa. In questo momento la testa pesa parecchio, così come contava quando le cose andavano bene: allora motivava e faceva girare le gambe, ora rallenta e crea insicurezze».
Ci sono segnali che fanno capire che il problema è più psicologico che fisico?
«A meno che uno non sia fuori forma perché in sovrappeso o in recupero da un infortunio, i calciatori — soprattutto a questo livello — sono preparatissimi. Ma la testa condiziona il corpo: se vivo un periodo negativo e rimugino sul negativo, anche la reazione fisica sarà negativa. Un atleta deve essere al 100% sia fisicamente sia mentalmente. Il problema è che nelle società si lavora molto sulla parte fisica, mentre l’aspetto mentale viene spesso lasciato alla gestione del singolo».
Può aver influito, anche a livello mentale, la fine di un ciclo lungo e vincente come quello di Gasperini?
«Sì. Oggi all’Atalanta il tema mentale conta molto perché è finito un ciclo che aveva richiesto tanta energia. C’è una sorta di svuotamento. Se analizziamo le situazioni di gioco, vediamo che i giocatori arrivano spesso in ritardo. Chi non sta soffrendo? I giovani nuovi, Bernasconi e Ahanor: si trovano in un contesto che li sta valorizzando ed emotivamente hanno una marcia in più. Non fisica, mentale. In questo momento vedo bene soprattutto Carnesecchi — ruolo diverso, percorso molto concentrato — e i due giovani. Il resto del gruppo fatica per vari motivi e questa fatica rallenta la manovra. Arrivano dopo sul pallone, nei contrasti. È un problema mentale o fisico? Entrambe le cose. I giocatori non sono diventati scarsi, e lo stesso vale per l’allenatore: può piacere o no, ma ha portato novità che ci potevano stare»**.
In che modo può intervenire l’allenatore in una fase così delicata? Quanto pesano comunicazione, empatia e capacità di trasmettere fiducia?
«Mi sembra che abbia fatto passi avanti nella comunicazione non verbale durante la partita e anche in quella verbale. Ricordiamoci che è straniero: non è mai facile esprimere pensieri complessi in un’altra lingua. Subisce pressioni, ma sapeva che sarebbe stato così. E poi: chi poteva prendersi l’onere di allenare l’Atalanta mantenendo lo stesso livello degli anni precedenti?»**
Adesso Juric cosa può fare?
«Quello che l’ha sempre contraddistinto: lavorare e costruire credibilità nello spogliatoio. Non sono dentro lo spogliatoio, non so come stiano le cose, ma deve assolutamente avere credibilità agli occhi dei giocatori, lavorando su due livelli. Il primo è quello delle individualità: anche i più talentuosi oggi hanno difficoltà e commettono errori grossolani. Questo segnala insicurezze e scarsa coesione. Ci sono individualità forti non ancora espresse: bisogna lavorare per tirare fuori il meglio da ciascuno. Penso al criticato Maldini: ha tutto per far bene, ma adesso è in difficoltà con la testa. Su questo deve lavorare tutto lo staff, non solo il mister: da solo non può fare tutto. Lo staff tecnico deve remare insieme per portare ogni giocatore al massimo livello possibile in questo momento»**.
Non è facile per un giocatore ritrovare fiducia quando la pressione cresce.
«Se vogliono affermarsi ad alto livello, questa è la sfida che devono superare. In campo vanno loro»**.
La seconda parte su cui bisogna lavorare qual è?
«Il gruppo, sul piano tattico e della coesione. Non mi sembra spaccato, ma ho l’impressione che non abbia ancora un unico obiettivo. E non parlo del risultato, ma della creazione del gruppo. Forse non sono stati abituati a farlo, perché con Gasperini l’obiettivo prestativo lo dava lui: dettava tempi e sinergie, anche creando una sorta di terrore sull’errore. Chi non reggeva, se ne andava. Chi è rimasto ha interiorizzato la pressione. Venendo meno questo, si sono trovati spiazzati, come davanti a qualcosa che non conoscono. Poi è vero: gli infortuni hanno condizionato questa prima parte e i nuovi devono assimilare il gioco. Anche con Gasperini servì tempo».
Quanto conta l’ambiente esterno — tifosi, media, aspettative — nella gestione di un momento di transizione?
«Molto. Il mister conta ed è stato messo in discussione dal primo giorno. Prendiamo Chivu all’Inter: è partito con difficoltà e ne avrà ancora perché gli manca esperienza, ma ha portato energia diversa. Ovviamente la qualità della rosa è un’altra, così come la capacità di apprendimento. L’eredità di Gasperini è difficile. Bisogna lavorare sulla crescita continua dei singoli — se pensi di essere arrivato sei un giocatore finito e non fai crescere i compagni — e sulla dimensione di gruppo, che può dare la spinta più importante»**.
Come si esce da questa situazione?
«La parola chiave è coraggio. Da parte di tutti. Lo staff deve andare oltre nelle proposte, nell’attenzione, nel lavoro. I giocatori devono osare di più: se arrivi anche solo un centesimo dopo, sei sempre in ritardo e l’avversario tocca la palla prima. Con Udinese e Lazio abbiamo avuto tante situazioni in cui arrivavamo dopo. Il calcio lo vinci lì, arrivando prima»**.
Cosa ti fa arrivare dopo?
«Tante cose: la testa in primis, la fiducia in sé, l’evitare di andare a 2.000 all’ora a vuoto sul pallone. Poi c’è la preparazione fisica, ma se ti senti forte vai forte: anche la testa ti spinge oltre. Il legame corpo-mente è indissolubile»**.
La piazza ora vorrebbe l’esonero dell’allenatore. Uno scossone così può ribaltare la situazione o peggiorarla?
«Lo capisci solo dopo. Se la squadra torna subito a far risultato, è servito. Ma non è una decisione che può chiedere la piazza. La piazza era contro il mister fin da subito, poi cambia idea ai primi risultati positivi: vive di pancia. La società non può. E mi pare che questa società, dal punto di vista sportivo ed economico, usando la testa sia arrivata in alto. L’esonero lo decide solo la società, valutando se la squadra è in mano all’allenatore e se lo staff riesce a far lavorare tattica, tecnica, preparazione e testa in sinergia, pur con difficoltà. Se così è, si va avanti; altrimenti è meglio cambiare. In linea di massima non sono favorevole all’esonero, ma quando il tecnico non ha più il gruppo, va fatto per dare la scossa e mettere i giocatori di fronte alle loro responsabilità. Se però la squadra sta lavorando, interrompere il percorso di crescita è controproducente. Certo, chi arriva adesso partirebbe in vantaggio, perché non ha l’eredità di Gasperini, ma di Juric».
Da un periodo di crisi così si può uscire più forti?
«Sì, se si è lavorato sulla crescita individuale. Scamacca deve crescere. Lookman deve crescere. Sulemana pure. Krstovic e Samardzic idem. Tutti devono crescere, anche i giovani che stanno facendo bene e i più esperti, De Roon e Pasalic compresi. Non è un discorso di rendimento, ma di squadra inespressa, che non ha ancora tirato fuori quello che può dare. E credo che questo allenatore possa farcela. Ha fatto giocare alla grande un 17enne. Bernasconi l’anno scorso in Under 23 non era nemmeno considerato: lui l’ha portato in prima squadra e oggi, con Zappacosta, in fase difensiva è l’esterno più affidabile. Ha trasformato Brescianini in un jolly prezioso. Ha le capacità per lavorare sulla crescita individuale e, se questa squadra si sblocca, ha il potenziale per fare bene. Va fatto un grande lavoro: le partite ravvicinate non aiutano, ma a Bergamo ci sono strutture e competenze per lavorare anche sull’aspetto mentale, che oggi non è ancora sufficientemente considerato».
Lo stadio può fare la differenza nel dare spinta alla squadra per uscire dalla situazione?
«Sì: ogni giocatore racconta quanto sia determinante la spinta dello stadio di Bergamo e dei suoi tifosi. Ma può incidere anche in negativo. Penso a Daniel Maldini e alle critiche: lo stadio non l’ha aiutato e per i più sensibili questo può diventare un problema. A me sembra un ragazzo serio, con voglia di lavorare, ma sensibile: e in questo mondo la sensibilità rischia di schiacciarti. Se ben gestita, però, può diventare un valore: ti permette di cogliere sfumature che ad altri sfuggono, come capire quando un compagno è in difficoltà. La sensibilità non va vista come un limite: bisogna lavorarci».
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