
ESCLUSIVA TA - Marco Morotti: "La Dea nella mia vita da sempre. Oggi fiducia a Juric: l’Atalanta può stare in Europa"
Cresciuto a pane e calcio, con l’Atalanta nel cuore e un padre, Franco Morotti, che per quarant’anni ha scritto pagine importanti della storia del calcio bergamasco – prima da consigliere e poi da amministratore delegato dell’Atalanta (dal 1976 al 1988), quindi presidente della straordinaria cavalcata dell’Alzano fino alla Serie B – per Marco Morotti il calcio, e soprattutto l’Atalanta, è un filo che lo lega a suo padre: dirigente capace di lasciare un segno profondo nella storia nerazzurra e nella favola dell’Alzano. I ricordi di Marco profumano di spalti, trasferte in famiglia, spogliatoi pieni di voci e sogni. Lì, tra un chewing gum offerto a Rummenigge e i sorrisi dei campioni visti da vicino, è nata una passione che il tempo non ha scalfito: oggi, da tifoso attento e appassionato, continua a vivere la Dea con lo stesso entusiasmo di quel bambino che, mano nella mano con il papà, scopriva il calcio e la vita sugli spalti di Bergamo.
Marco, raccontaci le tue prime volte allo stadio.
«Ho cominciato ad andare allo stadio quando avevo 4 anni - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. È una passione che papà ha trasmesso a me e a tutta la famiglia, tanto che nelle trasferte più vicine andavamo tutti insieme: lui, io, mamma e mia sorella – che ancora oggi sono abbonate all’Atalanta. Lo seguivo ovunque, fin dalla metà degli anni Settanta. Se ci penso, mi rivedo piccolo, attaccato a lui, negli stadi e negli spogliatoi di tutta Italia, dall’Olimpico a San Siro».
Avrai incontrato tanti campioni e avrai tanti aneddoti da raccontare.
«Tantissimi, ma alcuni mi fanno sorridere più di tutti. Penso alla prima di campionato di Serie A, Atalanta–Inter a Bergamo del 16 settembre 1984, ricordata per il record di presenze (poco meno di 44.000). Avevo 12 anni. Stavo guardando Galeazzi che intervistava Karl-Heinz Rummenigge. Masticavo un chewing gum e chiesi al giocatore dell’Inter se ne volesse uno. In inglese mi rispose di sì. Gli porsi la gomma e lui proseguì l’intervista con il chewing gum in bocca. Due anni dopo, da quattordicenne, eravamo a San Siro contro il Milan: finì 2-2 in rimonta dopo essere andati sotto di due gol. A fine partita Silvio Berlusconi scese nello spogliatoio dell’Atalanta, dove i giocatori festeggiavano, per fare i complimenti alla squadra, da vero signore».
Quante emozioni, Marco.
«Alcuni ricordi sono sfumati, altri meno, ma sono tutti indelebili. Me li porto dentro, come le volte in cui ho fatto da mascotte. All’epoca il bambino che accompagnava i giocatori in campo prima del fischio iniziale era solo uno, e diverse volte quel bambino sono stato io. Ci sono figurine Panini con me in posa nella foto di rito della squadra. Mi viene in mente anche quando andai con papà ai sorteggi della Coppa delle Coppe e volammo sull’aereo privato di Berlusconi. Mi piaceva l’Atalanta, ma mi piaceva tantissimo proprio stare con papà».
A tavola di cosa si parlava?
«Di tutto, ma – effettivamente – l’argomento più ricorrente, a tavola o nei momenti di tranquillità, era proprio il calcio».
Nell’Atalanta di oggi e nel percorso fatto, c’è qualcosa che si deve un po’ alla sua visione?
«Il calcio è cambiato tanto negli ultimi quarant’anni. Ai tempi di mio papà, passami il termine, era più genuino, romantico. Adesso è più manageriale, più business, merchandising. Le società di calcio sono diventate vere e proprie aziende. Negli ultimi anni, con l’arrivo di Gasperini, l’Atalanta ha avuto una crescita esponenziale, società compresa».
Vai allo stadio da quando hai 4 anni: non hai mai smesso?
«Solo per un paio d’anni quando papà era presidente dell’Alzano, in Serie B, e io avevo un ruolo dirigenziale: era difficile conciliare le due cose».
A proposito di Alzano: nel calcio di provincia di oggi c’è ancora spazio per una favola come quella di tuo papà?
«Non credo. È molto difficile. Quello era un calcio ancora basato sui meriti sportivi. Oggi conta molto di più il business, i bacini di utenza, i rientri economici. Tante società vengono acquistate dai fondi e c’è molto meno spazio rispetto a 25 anni fa. C’era l’Alzano, ma anche la favola dell’Albinoleffe. Oggi realtà così farebbero molta più fatica. Basta guardare la Serie B di oggi: è praticamente una A2».
Segui l’Atalanta in trasferta e hai partecipato a quasi tutte le europee. Fatta eccezione per la notte magica di Dublino, la più bella qual è stata?
«Liverpool, un mese e mezzo prima, vinta 3-0. Ero in tribuna, circondato da inglesi, e ho esultato a ogni gol; a fine partita mi hanno fatto i complimenti come se fossi sceso in campo io».
E la partita che ti è rimasta nel cuore?
«Milan–Atalanta 1-2 del novembre 1988, grazie al gol di Bonacina, dopo che il Milan aveva attaccato per tutta la partita e Ferron aveva parato l’impossibile. E ovviamente il 5-0 contro il Milan nel 2019: lì capisci che percorso incredibile è stato fatto. A fine anno siamo anche andati in Champions League».
Marco, sabato con il Como è arrivato un punto: sei d’accordo che si è visto il bel gioco che tutti aspettavano?
«Un bellissimo primo tempo. Sul piano del gioco la squadra mi è davvero piaciuta. Ho visto un’Atalanta molto simile a quella di Gasperini: più aggressiva, che gioca in avanti e non aspetta l’avversario. Ha cercato di fare la partita, non di subirla, contro un Como bello da vedere, con giocatori molto tecnici e veloci. Nelle ultime partite ho visto crescere la squadra e mi auguro possa lottare per un posto in Europa, che sia Champions o Europa League».
Spiegati meglio.
«Penso possa fare un campionato da vertice, arrivando nelle prime 6/7 posizioni, non meno. Napoli, Inter, Milan e Juve per me sono un filo sopra e andranno in Champions, con la Roma come outsider perché ha in panchina un genio. L’Atalanta si giocherà un posto in Europa con Bologna e Lazio. La Fiorentina non la vedo benissimo: quello di Firenze è un ambiente difficile».
Hai creduto da subito in Juric?
«In tutta onestà, all’inizio ero scettico. Negli ultimi anni non ha ottenuto grandi risultati. È vero che è subentrato in corsa e ha allenato squadre di livello inferiore, ma l’Atalanta è l’Atalanta. Però è stato bravo a cavarsela nonostante le numerose assenze».
Tra i nuovi acquisti, chi ti ha stupito maggiormente finora?
«Ahanor. Quando l’hanno acquistato per 17 milioni ho pensato fossero davvero troppi e invece sono stati soldi spesi bene: ha personalità e carattere. Peccato per l’infortunio di Zalewski: fino a quel momento aveva fatto benissimo. Krstovic, invece, mi aveva convinto di più nelle prime partite: spero torni presto a dare il suo contributo, come Scamacca e anche Lookman, che col Brugge non mi era dispiaciuto. Meno col Como, ma non giocava nel suo ruolo: l’ho visto scendere in campo con voglia di fare bene. Quindi mettiamo una pietra sopra tutto quello che è successo, perché abbiamo bisogno di lui».
Atalanta–Lazio: che partita dobbiamo aspettarci?
«Mi auguro una gara in cui l’Atalanta abbia il pallino del gioco, anche se le squadre di Sarri cercano sempre di averlo loro, e di portare a casa i tre punti, fondamentali per la classifica e per mettersi alle spalle delle big. Sicuramente qualche punto in più potevamo averlo».
Dove li abbiamo lasciati?
«In casa col Pisa alla prima di campionato, alla seconda a Parma, a Torino contro la Juventus e sabato col Como. In generale, tutti e quattro i pareggi potevano essere altrettante vittorie. Bastava vincerne una in più e ora saremmo a ridosso delle prime. Però non possiamo lamentarci: siamo ancora imbattuti. Quindi avanti, con fiducia all’allenatore e ai giocatori: c’è da lavorare tanto».
Anche perché dopo la sosta inizia un ciclo ben diverso rispetto a questo d’avvio campionato.
«Decisamente, ma è normale. Dobbiamo affrontare tutte le big, e questo ci permetterà di capire il nostro reale potenziale».
Dalle prime partite vissute da bambino al fianco del padre ai viaggi in Europa degli ultimi anni, Marco Morotti non ha mai smesso di seguire l’Atalanta. Nelle sue parole c’è l’orgoglio di chi ha vissuto la storia della Dea da dentro e la guarda oggi con affetto e lucidità, riconoscendo quanto sia cambiato il calcio – ma non la passione. E quella, a casa Morotti, è sempre rimasta la stessa.
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