In 50 giorni, tutto un altro Vanoli: dall'errore nell'approccio alla dialettica, tutti i cambiamenti per la sopravvivenza
Era entrato in scena sbattendo la porta, si era presentato ai microfoni, parlando per la prima volta da tecnico della Fiorentina, già senza voce - l'aveva lasciata nello spogliatoio del Viola Park, quando mezz'ora dopo il suo arrivo aveva già ripettinato tutti i suoi nuovi giocatori-, la nomea del sergente di ferro, del mr Wolf pronto a salvare il salvabile, dell'Ethan Hunt pronto a un'altra Mission Impossible. Un mese e mezzo dopo il suo arrivo la maschera sul volto di Paolo Vanoli è caduta, a suon di sconfitte, colpi all'autostima del gruppo e 'ghignate' contro la roccia dura della realtà. E il suo cambiamento più netto è stato sotto il piano comunicativo, ma lo vedremo alla fine di questo pezzo. Come cambia un uomo, un professionista, in 49 giorni? Il caso studio del mondo Fiorentina e del suo nuovo allenatore è interessante soprattutto per questo.
Tattica
La nomea di 'aggiusta tutto', ma soprattutto quella di sergente di ferro gli erano stata data dall'ambiente un po' per convenienza. Perché prima di atterrare sui detriti della Fiorentina, il 7 novembre scorso, Paolo Vanoli vantava soltanto due esperienze (e mezzo) da primo allenatore, Spartak Mosca (qualche mese nel 2022, prima che l'invasione della Russia in Ucraina e il conseguente conflitto esploso non lo portasse ad allontanarsi dal club), poi Venezia e Torino. In queste ultime due piazze era arrivato anche lì in un momento delicato, niente a che vedere però col disastro tecnico viola. Per questo, per lui, è stato tutto nuovo. E Vanoli si è dimostrato soprattutto allenatore di campo: ci ha messo tante, forse troppe partite, per cambiare un dogma dettato anche dalla rosa a disposizione, il 3-5-2 eredità di un mercato che ha portato all'epurazione di tutti gli esterni alti. Poi però le prime sconfitte e una situazione sempre più disperata lo hanno messo con le spalle al muro: con la Dinamo Kiev, nel secondo tempo, il primo accenno di novità, il passaggio a quattro con la necessità di rispolverare il naftalinico Kouamé come esterno alto. Difficile dire se la squadra ha iniziato a girare anche per quello - si trattava pur sempre dell'ultimo quarto di gara contro un avversario in difficoltà -, anche perché poi lo stesso Vanoli non s'è fidato, riproponendo la difesa a tre anche nella Caporetto contro il Verona e nella sconfitta di Conference contro il Losanna. Da lì, la necessità di cambiare qualcosa, di provare a uscire anche dalla comfort zone dei 'ruoli ideali' dei propri giocatori: la prima vittoria in campionato della Fiorentina, nella partita contro l'Udinese, è coincisa con la prima volta della difesa a quattro da inizio gara (almeno nella sua gestione), una sorta di Frenkeistein tattico, con Parisi e Dodo a sovraccaricare la fascia destra, con Ranieri terzino e Gudmundsson più aperto dall'altra parte, qualcosa difficile da mettere a sistema, ma che ha funzionato (ha anche funzionato l'aver giocato per oltre 80' in superiorità numerica per l'espulsione di Okoye). Quello che abbiamo visto in campo però è un nuovo inizio - e un indizio di mercato-. Per tornare a volare la Fiorentina ha bisogno di ali.
Atteggiamento
In meno di 50 giorni è cambiato anche l'atteggiamento che Vanoli chiede ai suoi. Perché la risorsa più preziosa e più limitata che abbiamo tutti (allenatori in primis) è il tempo. E se all'inizio della sua guida tecnica Vanoli predicava una massima di Iachiniana memoria - Quando non puoi vincere una partita, allora non perderla - adesso è tutto cambiato. Perché la clessidra si è inclinata e la situazione rimane tragica, con nove punti dopo sedici gare e più di trenta da farne nelle restanti 22. Perché la Fiorentina, per salvarsi, dovrà andare a prendere tre punti anche su campi difficili, e perché il pareggio ora non serve più. Lo abbiamo visto nei finali di gara, tutt'altro che lineari, delle ultime sfide: quando Vanoli ha provato ad ammassare corpi in avanti, Dzeko, Piccoli, Gudmundsson, Kean, tutti insieme, per vedere di avere un riscontro, un afflato vitale. Lo abbiamo visto anche da come la Fiorentina ha approcciato a una gara che di fatto non c'è stata, contro l'Udinese: dopo l'espulsione di Okoye, tutti all'assalto, così dopo l'1-0, il 2-0 e il 3-0, perché questa squadra non sembra poter aspettare, perché più che si abbassa, più che si rintana, e più i fantasmi dei mesi precedenti tornano a banchettare nella testa dei giocatori. Il primo errore di Vanoli forse è stato proprio quello. Voleva cambiare il chip, diceva lui, inserire nei suoi un nuovo aggiornamento, quello della squadra da coltello tra i denti, che deve speculare e tenersi stretto anche un punto. E' stato come far andare un'auto da corsa, seppur scassata, sulla pista ciclabile. Ora l'ha capito.
Dialettica
Dicevamo poi, dello stravolgimento più evidente. 7 novembre, Vanoli si presenta ai microfoni del club con la voce che non c'è e gli occhi spiritati, vuole subito infondere il suo spirito, vuole mettere la tuta da lavoro, togliere i mocassini dai piedi dei suoi e infilargli le galosce. Lo fa capire, e a parole conquista tutti. "Sbagliala una dichiarazione ogni tanto Paolino" scrivono anche i tifosi neutri sotto i post con le sue parole. Perché Paolo da Varese col microfono davanti è davvero uno che accende gli animi, che fa venire anche a chi lo ascolta la voglia di riprendere il borsone polveroso e rimettersi i calzettoni. Questo però è solo il primo livello comunicativo, la narrazione che costruisce per chi sta fuori. Poi ci sono i discorsi nello spogliatoio, che non sono sempre incendiari, ma anche profondi; è un uomo di campo ma anche di dialogo, si confronta, non urla e basta, stimola, parla con ogni calciatore in maniera diversa. A noi arriva solo il Vanoli da conferenza stampa. E quindi, confrontiamo questo primo Vanoli, 7 novembre, con quello del 18 dicembre: è appena finita Losanna-Fiorentina, i viola hanno perso 1-0, una delusione che si somma a quella di domenica col Verona, tutto sembra perso e la piazza schiuma di rabbia. Lui arriva in ritardo in zona mista e a SkySport si giustifica:: "No, non stavo parlando coi ragazzi, mi stavo facendo la doccia". Una dichiarazione che fa scoppiare qualche vena in testa ai tifosi, ma che serve per non gettare ancora più benzina sull'incendio. Nelle pieghe del viso un invecchiamento da stress - 50 giorni come allenatore della Fiorentina equivalgono ad almeno 5 anni -, una voce più dimessa. Da tigre a gattino, anche coi giornalisti: lo fa per abbassare le aspettative, lo fa per cambiare narrativa. Quella iniziale, del duro lavoro, di scacciare la paura e i fantasmi, del far rendere conto tutti la situazione fangosa che circonda la squadra, non ha funzionato. Serve dare speranza, anche all'esterno: l'idea che questa squadra ce la possa ancora fare. Prima di Losanna poi, il silenzio stampa indetto dalla società: un modo anche per non speculare su ogni singola parola in un momento in cui tutti borbottano e gli spifferi dello spogliatoio vengono trasformati in uragani. Lui lo sa, conosce la piazza e chi gli sta intorno. E ha avuto la saggezza di provare a cambiare. Consapevole che le parole le porta via il vento. E che c'è ancora tempo per cambiare: vestito tattico, mood con cui scendere in campo, dialettica. E soprattutto, il destino.






