È bianconero il principe della fascia sinistra!
Juventus-Brest. Alla fine del primo tempo il pensiero è andato al titolo di un romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale! Troppo tragico. Con l’ingresso in campo dei “titolari”, e del buon Douglas Luiz, il ricordo si è fatto meno drammatico, pensando al titolo di un Varietà del 1981 con Raimondo e Sandra, Stasera niente di nuovo. Se non è zuppa è pan bagnato… I buonisti invitano ad esser pazienti, a non criticare, giudicando troppo aspramente (e forse ingiustamente) una Juventus che fra due settimane avrà il Como come avversario non amichevole, nell’esordio del campionato di Serie A, e c'è ancora tantissimo lavoro da svolgere prima che i pezzi del giocattolo siano in sincrono.
L’attesa. Questa parola ha una pulizia e un’incisività formidabile. Fra il momento in cui un evento è annunciato o previsto e quello in cui si verifica c’è un lasso di tempo: se ci interessa, in quel tempo attendiamo l’evento. I tifosi prevedono (sperando) una degna conclusione della campagna acquisti per completare una rosa mancante ancora di tanti petali e iniziare un campionato con ottimi auspici. Attendono. Attendiamo.
Intanto… eccovi il penultimo – spero atteso - appuntamento con gli “Era il”…
Era il 1976. L'IBM introduce il primo tipo di stampante laser, l'IBM 3800; il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ammette con undici voti a favore e uno contrario l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina; la Corte di Cassazione condanna il film Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci: viene vietata la proiezione e vengono bruciate tutte le copie del film; il Friuli devastato dal terremoto; Adriano Panatta vince il Roland Garros e a Santiago del Cile l’Italia conquista la sua prima Coppa Davis battendo il Cile 4-1; il Toro vince il suo ultimo scudetto e Antonín Panenka col suo “cucchiaio” porta la Cecoslovacchia sul tetto d’Europa; si ascolta Margherita di Cocciante, sognando di conquistare il cuore di una ragazza e Non si può morire dentro di Gianni Bella; esce nelle sale cinematografiche il Casanova di Fellini. Già… Giacomo Casanova il primo latin lover italiano … come un terzino della Vecchia Signora….
ANTONIO CABRINI
Il terzino sinistro, il mancino, peculiarità nel calcio dei campionissimi. Il suo ruolo avrebbe fatto la fortuna di Stevenson, l’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, per la doppia e distinta “personalità”. Il bell’Antonio – questo il suo soprannome carpito dal titolo di un romanzo di Vitaliano Brancati – quale pedina della terza linea, doverosamente difendeva e bloccava le scorribande dell’ala destra avversaria, ma con un asso nella manica: la licenza di attaccare. Partecipava alle manovre offensive con costanti propulsioni in avanti, coprendo l’intera fascia, arrivando sul fondo per crossare in area, disegnando parabole precise per i suoi centravanti o andando personalmente a finalizzare l’azione con tiri forti e tesi. Altre volte controllava le avanzate degli avversari, e appena in possesso del pallone, lo smistava ai centrocampisti per impostare una nuova azione d’attacco, con uno stile elegante e rivoluzionario al tempo stesso, con una naturalezza istintiva, degno erede del leggendario Nilton Santos, l’inventore del ruolo di terzino fluidificante, campione del mondo nel ’58 con il Brasile. Eccellente anche nel colpo di testa, per tempismo ed elevazione.
Nasce a Cremona l’8 ottobre 1957. Debutta a sedici anni in prima squadra con la Cremonese in C, nel ’75 passa all’Atalanta dove disputa un’ottima stagione in B, per poi passare l’anno successivo alla Fidanzata d’Italia, che da tempo osservava quel giovane riccioluto, nato ala sinistra, consacratosi come terzino. Si presenta alla corte della Juventus trapattoniana dicendo di amare la California e di leggere Hemingway: capiscono subito che quel ragazzo avrebbe fatto molta strada. Espansivo e aperto, lega subito con due compagni d’avventura, un guerriero magrissimo e un uomo semplicemente perfetto: Marco Tardelli e Gaetano Scirea. Da quell’incontro nasce un’amicizia fraterna, indissolubile.
Con la maglia bianconera esordisce il 13 febbraio ’77, nella gara casalinga contro la Lazio terminata con la vittoria dei piemontesi. Il suo gol più bello in campionato è quello decisivo nel derby primaverile del ’79: collo pieno a volo da fuori area e pallone nell’angolino opposto. Il tutto a un paio di minuti dalla fine con il Comunale in delirio. Combattente in campo, ha dato tutto per la sua Juve, sopportando in alcune circostanze il dolore e la fatica, non mollando mai. Nella finale di Supercoppa Europea contro i Red Devils del Liverpool nell’85, gioca con il distacco della retina – causato da una pallonata presa da Brio contro la Sampdoria – e con il legamento crociato anteriore rotto: è uno dei protagonisti dell’incontro trionfale. Con la Juventus disputa 442 gare e realizza 52 gol, vincendo tutto ciò che si poteva vincere: sei Scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa, una Coppa delle Coppe, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, divenendo il primo giocatore, assieme a Scirea, a raggiungere tale traguardo. Trasferitosi nell’89 al Bologna, chiude lì la sua carriera dopo due stagioni.
Enzo Bearzot, C.T. della Nazionale, lo convoca nell’Italia Sperimentale, facendolo giocare a Verona il 26 aprile ’78 in un’amichevole contro la Lega scozzese. Si distingue in campo e a fine gara Bearzot lo prende sotto al braccio, e tra le nuvolette di fumo della sua inseparabile pipa, gli dice: «Ragazzo, tieniti pronto perché ti porto in Argentina, ma non dire niente a nessuno». Fu così. Lo convoca per il Campionato del Mondo disputato nella terra del tango, preferendolo al fin lì titolare Aldo Maldera. Fa il suo esordio il 2 giugno ’78 nella partita Italia-Francia (2-1) disputata a Mar del Plata. Conquistato il posto di titolare, gioca tutte le partite della rassegna iridata, chiusa dai meravigliosi azzurri al quarto posto. È premiato dalla FIFA come miglior giovane dell’edizione, titolo che in passato era stato di un certo Pelè nel ’58 e di un signore di nome Franz Beckenbauer nel ’66.
Eroe in Spagna nel 1982, dove con altri cinque suoi compagni bianconeri, diviene campione del mondo, disputando tutte le sette partite del torneo e segnando un memorabile gol contro l’Argentina, un sinistro di prima intenzione a incrociare sul palo più lontano di Ubaldo Fillol, portierone del River Plate. Il suo capolavoro fu contro il Brasile, innescando il primo sigillo in quel mondiale di Paolo Rossi, suo compagno di stanza e fratello per tutta la vita. Riceve palla dalla destra da Bruno Conti, stoppa il pallone sulla trequarti, se lo porta avanti con il suo sinistro, alza la testa. In quel momento vede Pablito che fremeva impetuoso al limite dell’area di rigore del Brasile. Lascia partire il cross dalla sinistra, la palla sembrava accompagnata da due angioletti e telecomandata verso la gloria. Rossi alza lo sguardo e fissa quel pallone dal colore azzurrocielo che taglia fuori l’intera difesa del Brasile. Non deve far altro che correre in avanti. Un passo. Due passi. Tre passi. Poi il pallone impatta contro la sua fronte. E tutti sanno già come va a finire. La sfera rimbalza a terra trasformando Valdir Peres nel portiere caduto alla difesa ultima vana. Pablito non finirà mai di ringraziare il suo amico per quel pallone sceso dal cielo di Barcellona e messo al servizio di uno dei terzini più forti di tutti i tempi. Eroi, gli azzurri tutti, protagonisti di un match che vivrà in eterno.
Madrid, luglio 1982, finale del Mondiale spagnolo contro la Germania Ovest. Altobelli crossa nel mezzo dove Bruno Conti viene messo giù dal tedesco Briegel: il rigore è netto. Siamo al primo tempo, minuto 25°, e la partita può già prendere una svolta. Ma chi lo batte? Cabrini è il secondo rigorista della squadra azzurra, Giancarlo Antognoni è il primo, ma infortunato. Il terzino responsabilmente e coraggiosamente prende il pallone e va verso il dischetto. Un giocatore tedesco si avvicina per dargli fastidio, poi un fumogeno cade vicino al pallone. Antonio non può più aspettare, deve affrontare il momento più delicato della sua carriera: inizia la rincorsa, arriva quasi sul pallone, poi alza lo sguardo e butta un occhio sul portiere tedesco. Vede che si muove, lui non sa che però è solo una finta. E Cabrini ci casca, calciando dalla stessa parte dove si butta Harald Schumacher. Una ciabattata. Palla fuori.
Poco male, per fortuna a giugno Francesco De Gregori aveva pubblicato il suo album Titanic, e la terza traccia s’intitolava La leva calcistica della classe '68: “Ma Nino non aver paura / Di sbagliare un calcio di rigore /Non è mica da questi particolari / Che si giudica un giocatore / Un giocatore lo vedi dal coraggio / Dall’altruismo e dalla fantasia”. Cabrini la conosceva. Disputò un secondo tempo da leggenda, da campione del mondo.
Gioca la sua ultima partita in Nazionale il 17 ottobre dell’87 a Berna, in una sfida contro la Svizzera. Con l’Italia totalizza 73 presenze, dieci delle quali da capitano, e 9 reti record di marcature tra i difensori azzurri.
«La Juventus – rispondendo ad una domanda di Mario Soldati – non è solo la mia squadra del cuore. Non sono solo un tifoso, mi sento un suo amante. Con la Juve sono cresciuto, lì ho passato gli anni più belli della mia vita. Ho dato il meglio di me e a volte, con grande incoscienza, sono anche andato oltre». Antonio Cabrini, il numero 3 più vincente e bello del calcio italiano, leggenda juventina. Tutte le tifose di qualsiasi squadra avrebbero tradito per un suo bacio, proprio come quello dipinto da Hayez nel 1859.
Roberto De Frede
Tratto da "Ritratti in bianconero" di Roberto De Frede - https://www.amazon.it/dp/B092PKRN38?ref