L'ex Piccini: “Andare a Bergamo, all’Atalanta di Gasperini, fu un errore: non ero al 100%"
Cristiano Piccini non ha mai amato le maschere. Né in campo, né nella vita. Oggi, a 32 anni e dopo il ritiro dal calcio giocato, si racconta in una lunga intervista alle colonne de La Gazzetta dello Sport con un’onestà che spiazza: «Ho avuto una vita vera, piena, non una di quelle perfette da Instagram, dove tutti sono belli e felici. Ho sofferto, ho vinto, ho toccato il fondo. Ma ne sono uscito». Il suo percorso di rinascita l’ha messo nero su bianco, su un diario scritto a mano, “roba d’altri tempi” come la definisce lui. «Scrivere è stata la mia terapia – spiega –. Mi ha aiutato a liberarmi, a guardarmi dentro e a essere grato per ciò che ho avuto. Ho fatto il mestiere dei miei sogni, ho vissuto in 13 città, imparato cinque lingue, ho conosciuto il dolore e la depressione, ma oggi mi sento una persona più completa. La mia non è un’autobiografia da calciatore, ma la storia di un uomo che ha vissuto davvero».
IL GINOCCHIO CHE HA CAMBIATO TUTTO – Era il 28 agosto 2019, e Piccini stava vivendo il momento migliore della carriera: titolare nel Valencia, fresco vincitore della Copa del Rey, nel giro della Nazionale. Poi, in allenamento, la tragedia: «Un infortunio bestiale: la rotula spaccata in quattro parti. Il medico mi disse che sarei stato fortunato se fossi tornato a camminare senza zoppicare. Ma io non volevo mollare: non sarebbe stato un infortunio a decidere per me». Ci sono voluti due anni e mezzo per tornare a giocare una partita da titolare. Due anni e mezzo che lo hanno cambiato per sempre.
IL BUIO DELLA DEPRESSIONE – «È stata la fase più dura della mia vita. Vivevo giorni di rabbia e notti di dolore. Non ero più io: aggressivo, negativo, incattivito con tutto e con tutti. La depressione ti svuota, ti toglie la voglia di vivere. Mi sono reso conto che non avevo più stimoli, che stavo perdendo la mia famiglia. Piangevo di nascosto, aspettando che mia moglie si addormentasse per non farmi vedere da lei. L’unica cosa che mi interessava era giocare alla PlayStation». Poi, la consapevolezza: «Quando tocchi il fondo, devi reagire. Ho capito che dovevo riprendere in mano la mia vita».
GLI ERRORI E LA SOLITUDINE – Piccini non si nasconde dietro scuse: «Ho sbagliato tanto, anche nelle scelte. Andare a Bergamo, all’Atalanta di Gasperini, fu un errore: lì devi essere al 100% fisicamente e mentalmente, e io non lo ero. A Valencia sapevano cosa avevo passato, a Bergamo no. Mi pagavano e pretendevano, ma io non avevo più la testa. Anche alla Stella Rossa, pur da titolare, avevo perso la voglia di giocare. È terribile quando non riesci più ad amare la cosa che hai sempre amato».
LO YOGA, LA SCRITTURA E LA RINASCITA – La svolta è arrivata grazie allo yoga e alla scrittura: «Avevo iniziato con lo yoga ai tempi dello Sporting Lisbona, e mi faceva stare bene. Così ho ricominciato. È stato il mio modo per ritrovare equilibrio e accettare le mie fragilità. Noi calciatori pensiamo di essere supereroi, ma non lo siamo. Non vogliamo mostrarci deboli, e invece farlo è un atto d’amore verso sé stessi. Devi liberarti di tutto ciò che ti pesa dentro, solo così puoi guarire».Scrivere è stato un passo decisivo: «Il mio diario è diventato una terapia. Ogni parola è un pezzo di me che tornava a respirare».
LA SOLITUDINE NEL CALCIO – La depressione, nel mondo del calcio, resta un tabù. «Tra compagni se ne parla solo se c’è un rapporto profondo, ma è raro. Devi stare attento a cosa racconti, perché non sai mai se l’altro lo userà con buone intenzioni. Eppure, serve più umanità. Quando un giocatore si rompe un ginocchio, il club gli affianca un fisioterapista. Quando si rompe dentro, lo lascia solo. Bisognerebbe avere figure che ti aiutano ad accettare e superare certi momenti, come parte del percorso umano e sportivo».
UNA NUOVA VITA – Oggi, Piccini ha lasciato il campo, ma non il calcio. È entrato a far parte della Estrella Football Group, una compagnia olandese di multiclub ownership che punta a creare una rete di società autonome ma interconnesse, con l’obiettivo di sviluppare talenti e strutture in modo etico. «Mi occupo della parte sportiva: giocatori, academy, infrastrutture. Voglio che chi lavora con noi si senta rispettato e sostenuto. Se ho sofferto tanto, è anche perché in certi momenti non ho avuto chi mi capisse davvero. Nelle squadre del nostro gruppo, questo non dovrà accadere».
Piccini non cerca pietà, ma vuole lanciare un messaggio: «La mia storia non è quella di un campione, ma di un uomo che ha imparato a non nascondersi. Se qualcuno che soffre leggendo le mie parole capirà che non è solo, allora sarà valsa la pena raccontarla». Dal buio della depressione alla luce di una nuova vita, Cristiano Piccini è la prova che si può cadere, ma anche rinascere. Con una penna in mano e la forza di dire: «Io ci sono ancora».






