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ESCLUSIVA TA - Gigi Petteni: "Gasperini? A Roma lo odiavano, ora lo amano. Ma la Capitale del calcio non è lì"
Oggi alle 00:45Primo Piano
di Claudia Esposito
per Tuttoatalanta.com

ESCLUSIVA TA - Gigi Petteni: "Gasperini? A Roma lo odiavano, ora lo amano. Ma la Capitale del calcio non è lì"

Il Presidente Inas-Cisl e tifoso doc: «De Roon incarna la nostra cultura, Dublino un sogno. Il Bocia? Ha sbagliato, ma non è un mostro. Va recuperato"

Figura di riferimento nel mondo sindacale lombardo e nazionale, con una lunga carriera nella Cisl di cui è stato anche segretario confederale, Gigi Petteni è un tifoso nerazzurro di ferro: non solo segue l’Atalanta da oltre cinquant’anni, ma vive la squadra come un simbolo d’identità e valori condivisi, dove il calcio si fa comunità e lezione di vita. Dal 2018 è presidente dell’Inas - Istituto Nazionale Assistenza Sociale, il patronato della CISL, e da 12 anni vive a Roma. Una città che ha imparato a conoscere e a cui, in vista della sfida di sabato, lancia simpaticamente il guanto di sfida. Perché se nella Capitale, complice l’arrivo di Gasperini e l'attuale classifica, si sentono un po’ superiori, sarà divertente vedere se i nerazzurri riusciranno a rimettere tutti al loro posto.

Gigi, quando nasce la sua passione per l’Atalanta?
«Vado allo stadio da oltre cinquant’anni - confida, in esclusiva, ai microfoni di TuttoAtalanta.com -. Quando ero un ragazzino i miei riferimenti erano Gimondi e l’Atalanta. A 15 anni ho cominciato ad andare alle partite con il barista del mio paese, Vigano San Martino, e da allora l’Atalanta è diventata un’identità. Qualcosa di molto più grande di una semplice squadra di calcio».

Qual è l’emozione più grande che le ha regalato la Dea?
«A Dublino non ci sembrava vero. Ci davamo i pizzicotti come a dire: "Sono qua, non sto sognando, è la realtà". Eravamo noi, gli stessi che andavano a giocare a Sant’Angelo Lodigiano. Chi ha vissuto tutte le battaglie di una volta non si è reso subito conto del salto fatto, faticava a credere che fosse tutto vero».

Le emozioni sono cambiate nel tempo o sono rimaste le stesse di quando si lottava per non retrocedere?
«Questo è un sogno che continua, ma bisogna sempre tenere i piedi per terra. Quando perdi, come con l’Inter, ti arrabbi per l’errore, ma a questi livelli paghi la minima incertezza. Certo, ci sono stati momenti belli anche in passato. Ricordo lo spareggio per la A contro il Cagliari a Genova, ma soprattutto le avventure dietro ogni trasferta. Al di là dei risultati, restano le persone con cui hai condiviso quei momenti, perché il calcio è relazione umana. Per noi la partita inizia prima del fischio d’inizio e finisce ben dopo il triplice fischio. Ancora oggi, con i miei amici, abbiamo un gruppo dove viviamo la gara giorni prima».

Ci spieghi meglio.
«Si parla tanto, si discute. Ognuno ha la sua visione e se qualcuno non può venire allo stadio, deve giustificarsi come a scuola».

Oggi il calcio è ancora un collante sociale?
«In modo diverso, ma sì. I miei nipoti si danno appuntamento, vanno insieme allo stadio, organizzano la serata in base all'orario della partita. Si sono creati la loro rete. Spesso, a fine gara, ci si ritrova e se ne parla. Nella mia compagnia c’è un amico che prepara salami: se c’è una diatriba calcistica, la sistemiamo le sere successive con un buon salame e un bicchiere di vino. Non è più il tempo delle corse allo stadio di una volta, ma è la società a essere cambiata. Il pallone conserva ancora tratti di umanità in un mondo dove le relazioni si sono impoverite».

Chi è il giocatore più rappresentativo di sempre?
«Stromberg. Il suo viso, nei momenti di difficoltà, trasmetteva sempre serenità. È stata una figura unica: un grande campione che si è immedesimato totalmente nella nostra realtà e cultura. Negli ultimi anni abbiamo visto magie, ma credo che lui rimanga qualcosa di superiore».

Lei ha firmato per la cittadinanza onoraria a De Roon. Anche lui ormai è uno di noi?
«Incarna perfettamente la nostra realtà. Il suo atteggiamento è esemplare, dai piccoli gesti all'impegno in campo. Rappresenta la cultura della maglia sudata. Quella stessa maglia che tengo nel mio ufficio a Roma: chi entra deve vederla, insieme alla sciarpa con la Coppa».

Però, Gigi, oggi i romanisti la guardano dall’alto.
«È un momento. Poi torneranno a guardarla dal basso. Li aiuteremo anche noi sabato sera. Sono ottimista. Spero in una vittoria che farebbe bene a noi e anche a Gasperini. È stato un grande allenatore, indiscutibile. Ma se a fine partita la Curva cantasse "L’Atalanta siamo noi", farebbe bene anche a lui ricordarglielo. Lui non è l’Atalanta. L’Atalanta siamo noi».

Quindi negli ultimi anni l’Atalanta non è stata "solo" Gasperini?
«Sono contro l’idea dell'uomo solo al comando. È un disastro per l’umanità, nel sociale come nell'economia. Sono per la partecipazione, da cui emergono i fuoriclasse. Gasperini è stato straordinario e gli saremo sempre grati, ma l’Atalanta c’era prima, c’è stata con lui e ci sarà dopo. C’era una società forte, direttori sportivi capaci e un bravo allenatore che valorizzava i giocatori. Il valore aggiunto è l’insieme. Se pensiamo che fosse il mago onnipotente, il risveglio sarà traumatico. Il calcio è un gioco di squadra dove il "noi" prevale sull’"io". Senza di lui non dobbiamo sentirci orfani».

Stiamo faticando quest’anno?
«Il passaggio non era facile. Personalmente avrei preferito Palladino fin dall’inizio, ma col senno di poi è facile parlare. Ora l’allenatore sta lavorando per dare un’identità. Nel calcio basta un attimo per cambiare tutto, serve tempo ed equilibrio. Vediamo cosa succede sabato. Vivo a Roma da tanti anni e conosco i romanisti: visti i precedenti, hanno una voglia matta di batterci. Per noi vincere sarebbe ancora più bello. Loro cercano rivincita, noi dobbiamo batterli».

Ha la sensazione che pensino di vincere facile?
«Loro sono fatti così per natura. E con l’Atalanta non c'è proprio amicizia, visto quante gliene abbiamo suonate negli ultimi anni. Vivo qui da 12 anni e dopo le partite con i giallorossi ho quasi sempre sorriso. Adesso pensano di aver trovato la soluzione con il "Mago Zurlì", ma sabato dobbiamo riportarli alla realtà. Gasperini ha fatto le sue scelte, noi le nostre: un ridimensionamento farebbe bene anche a lui».

Da residente a Roma, si è sentito sbeffeggiato in questi mesi?
«Certo. I romani sono simpatici, mi ringraziano spesso per avergli dato Gasperini. Ma lui va preso sul medio-lungo periodo. Prima che arrivasse a Trigoria lo odiavano; poi con i risultati, come la vittoria nel derby, e frequentando i salotti romani, si è fatto voler bene. Ma attenzione: a Roma passare dalle stelle alle stalle è un attimo. Comunque loro hanno Gasperini, noi l’Atalanta. E batterli sabato sarebbe una libidine».

Sulla partita con l’Inter: ci hanno penalizzato gli errori o erano più forti?
«Nel primo tempo l’Inter era più forte, sono scesi in campo con un'altra consapevolezza. Nel secondo tempo la gara è stata equilibrata e abbiamo avuto le nostre occasioni. Non ne usciamo ridimensionati, anche se un pareggio avrebbe fatto bene al morale».

Lei si occupa di lavoro e diritti: vede questi valori nell’Atalanta?
«Sì, faccio spesso riferimento all’Atalanta nei miei incontri. Il calcio insegna a fare gruppo, ad aiutarsi. La maglia sudata è un messaggio universale. L’Atalanta è il simbolo di come si possa rendere possibile l'impossibile. Chi si chiedeva come potesse una "squadretta" andare in Champions dovrebbe studiare la nostra storia: capirebbe cose utili anche per la gestione aziendale. Il calcio insegna lezioni profonde se si sanno cogliere».

Lei è intervenuto spesso sul tema della violenza. Esiste una responsabilità sociale nel tifo?
«Il calcio è lo specchio della società. Ci sono stati miglioramenti, ma ho un rammarico. Nei confronti di qualche ragazzo che ha vissuto con passione l’Atalanta, magari esagerando, bisognerebbe fare un passo indietro».

Si riferisce al «Bocia» Claudio Galimberti?
«Quando passo nelle Marche vado a trovarlo. Ha commesso errori, certo, ma non è un mostro. Ha amato l’Atalanta anche nella sofferenza. Non carichiamo sul calcio tutte le brutture della società. È uno sport che aggrega ancora. La solitudine e i social sono peggiori di qualche eccesso da stadio».

Gigi, sabato vinciamo a Roma e a fine anno gli arriviamo davanti?
«Se vinciamo sabato, penso potrebbe andare proprio così. Arriverà il momento in cui scoppieranno anche loro. Nel calcio la capitale non è Roma. Roma ha i Sette Colli ed è bellissima, ma a noi Città Alta non manca nulla. Continuiamo ad avere l’obiettivo di essere Città Alta e l’Atalanta alta».

Tra ricordi di trasferta e analisi lucida del presente, Gigi Petteni racconta un’Atalanta che trascende il risultato: una scuola di passione, dedizione e collettività. Anche nelle difficoltà, il calcio resta uno spazio di valori, capace di trasmettere lezioni su responsabilità e solidarietà. Per Petteni, l’Atalanta non è mai solo una squadra, ma una parte viva della sua storia e della comunità bergamasca. Sempre pronta a crescere, sorprendere e unire.

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