Carlo Nesti: "Heysel: 40 anni fa, Caino uccise Abele"

Per tanto tempo, almeno fino ai 30 anni, riesco a conservare una purezza d’animo che rende il lavoro leggero come una piuma, e quindi svolto senza fatica. Riesco a rigirare fra le mani il pallone e, in generale, il mondo del calcio, come un giocattolo. Anzi, come il “Giocattolo”, con la “G” maiuscola, un’affascinante e spassosa appendice dell’infanzia.
Dentro un recinto ideale, colloco figurine, prati, porte, tacchetti, stadi, spogliatoi, penne, taccuini, rotative, microfoni, telefoni e transistor. Metto insieme le campane della domenica, le code ai botteghini, le attese sulle gradinate, e i fischi di inizio contemporanei. Tutte le partite, rigorosamente, alla stessa ora del pomeriggio.
Guai a modificare l’equilibrio! Un romanzo popolare, che suggerisce il quesito: ma come saranno riusciti, nei secoli scorsi, a fare a meno del calcio? E una domanda, però, carica tanto di romanticismo, quanto di superficialità, perché più il calcio conquista le folle, e più si cala nella società, con i suoi chiaroscuri.
Il 29 maggio 1985, a Bruxelles, sono inviato della Rai per il TG1 e per la radio, in occasione della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool. La mia terza finale bianconera, da giornalista, dopo l’Amburgo nel 1983 e il Porto nel 1984. Parto con il solito, squisito compagno di viaggio: Beppe Barletti, inviato da Torino per il TG2.
La Grand Place di Bruxelles si svuota nell’ora di pranzo e propone un colpo d’occhio indimenticabile: migliaia di lattine vuote di birra hanno lastricato interamente il pavimento stradale. È il segno mattutino lasciato dagli hooligans: un’orda barbarica di ultras inglesi, che saccheggia i bar, nelle prove generali per lo “spettacolo” della sera.
Nel pomeriggio, quando noi giornalisti saliamo sul pullman che ci porta al decrepito Stadio Heysel, un’altra scena spiega il loro stato di eccitazione, ubriachi e drogati. Salgono sulle collinette che circondano l’impianto e, al nostro passaggio, abbassano i pantaloni, mostrano i genitali e orinano disinvoltamente, con un volgare gesto di sfida.
La polizia belga continua a tenere lo stesso contegno del giorno prima: agli inglesi è concesso tutto, mentre gli italiani vengono perquisiti, minacciati e derisi. I connazionali sembrano tornati quelli “usati”, negli anni Cinquanta, nelle miniere del Belgio, cittadini del mondo di Serie C, braccia straniere da lavori forzati, fino all’olocausto di Marcinelle.
Il servizio d’ordine, vergognoso responsabile aggiunto della tragedia, ha due obiettivi: proteggere i belgi e chiudere un occhio in caso di scontri fra inglesi e italiani. In sostanza, gli ultras si eliminino a vicenda, ed è questo equivoco che rende colpevolmente inesistente un intervento in curva Z, sulla sinistra della tribuna.
Sì, la curva Z: l’ultima curva, la curva della morte. Lì non ci sono ultras inglesi e ultras italiani, bensì feroci hooligans, già noti alle polizie di tutta Europa, al fianco di gente comune, venuta dall’Italia. Padri, madri, figli, famiglie indifese e desiderose solo di assistere a una pacifica partita di calcio. In mezzo, a dividerli, un ridicolo cordone di pochi agenti.
Io sono con Enrico Ameri, per raccontare, via radio, la gara. Noto che la curva finisce in un punto in cui non è comprensibile, dalla nostra postazione, se esistano uscite di sicurezza. Due ore prima dell’incontro, cominciano le cariche degli inglesi contro gli italiani, che indietreggiano, terrorizzati, sparendo in una zona d’ombra.
Non posso ancora saperlo, ma la macabra zona d’ombra è lo spartiacque fra la vita e la morte, e anche fra il mio passato e il mio futuro, fra il calcio-fiaba e il calcio-strazio. La compressione dei tifosi verso l’esterno, con conseguente decesso di 39 persone calpestate e soffocate, determina la carneficina: è l’omicidio di massa impunito di Caino contro Abele.
I tifosi sfuggiti al massacro, infatti, si riversano sul terreno di gioco, picchiati dalla polizia belga come invasori di campo. Chi può, scavalca le barriere per mettersi in salvo, ed entra in tribuna stampa. Senza ancora i cellulari, e con poche cabine telefoniche a disposizione, allungo il microfono a chi vuol far sapere a casa di essere vivo.
Arrivano, presso di me, come i soldati feriti di una guerra improvvisa, inimmaginabile, bestiale. Hanno facce stravolte, braccia insanguinate, camicie strappate. Chi ha avuto la fortuna di rompere il muretto è volato di sotto, si è fratturato in più parti, ma si è salvato. Chi non l’ha avuta, è rimasto schiacciato, e non è più riuscito a respirare.
Gaetano Scirea e Phil Neal, i due capitani, salgono nella cabina dello speaker per tranquillizzare i tifosi. Dicono che giocheranno lo stesso: «Giocheremo per voi». Che effetto, mentre scrivo, pensare che anche Gaetano, poco più di quattro anni dopo, non ci sarà più, lasciandoci in un modo, se possibile, ancora peggiore, fra le fiamme della benzina!
Quando rievoco quella finale, credo che si doveva disputare per evitare altri scontri e altri morti, ma che non si doveva assegnare nulla, con immediata restituzione del trofeo all’UEFA. E credo a una sorta di Hiroshima del pallone: la “bomba atomica” del teppismo calcistico che esplode, e dopo la quale nulla sarà più come prima.
(DAL MIO LIBRO "LA VITA È ROTONDA" EDITO DA SAGGESE)
