Ederson e il bivio della Dea: «Sembra il cugino», ma Palladino può restituirgli la corona
Per due anni Ederson era stato il metronomo feroce e gentile dell’Atalanta: il giocatore che accorciava, recuperava, costruiva, incendiava la partita quando serviva. Un equilibratore totale, capace di dare continuità al sistema più ancora dei principi che lo sostenevano. Oltre ottomila minuti in nerazzurro lo hanno reso imprescindibile, il primo nome cerchiato da mezza Europa. In estate la Dea ha respinto offerte e sondaggi, chiedendo cifre da top player, convinta di ripartire da lui. Poi, improvvisamente, Ederson si è dissolto.
L’IDENTITÀ PERDUTA – L’infortunio al menisco lo ha tolto per un mese, ma il vero blackout è arrivato dopo. Un rientro lento, impreciso, soffocato in un calcio che gli chiedeva ciò che non è: rigidità, posizione fissa, meccanismi da rispettare più che intuizioni da seguire. Nel sistema di Juric, il brasiliano sembrava ingabbiato: correva meno, sbagliava di più, pensava troppo. Lontano parente del centrocampista che era diventato il cuore pulsante della Dea.
È qui che le parole di Walter Sabatini, l’uomo che lo portò in Italia nel 2022, diventano rivelatrici. «A vedere giocare Ederson sembra di vedere il cugino: ha perso lo slancio. È monocorde e non capisco quel che gli succede. Eppure non è un giocatore normale, lo hanno cercato ovunque. Ederson oggi è un po’ la fotografia dell’Atalanta». Una diagnosi chirurgica: sbiadito lui, sbiadita la squadra.
LA CHIAVE DI PALLADINO – L’arrivo di Raffaele Palladino cambia lo scenario. Il nuovo tecnico, più che un restauratore, è un costumista: veste i suoi centrocampisti per valorizzarne i tagli, le linee, le accelerazioni. Le sue squadre respirano attraverso chi rompe gli schemi, non chi li subisce. È un calcio che premia chi sa leggere le partite più che chi deve incasellarsi. Ederson vive di istinto, energia, scelta del momento. Ha bisogno di campo davanti, non di confini ai lati. Il brasiliano, in un sistema fluido e verticale, può tornare a essere quel giocatore che strappava la partita con una corsa, una pressione, una conduzione che saltava due linee. La sua rinascita non è una cornice estetica: è una leva strutturale per ricostruire l’Atalanta.
UN LEADER SENZA PREAVVISO – Perché se oggi Ederson è davvero lo specchio della Dea, come sostiene Sabatini, riportarlo ai suoi livelli significa riaccendere un’intera idea di squadra. E non è un caso che negli ultimi mesi, quando lui è calato, si sia affievolito tutto il resto: la pressione, la continuità, la sicurezza con cui la Dea mangiava campo agli avversari. Palladino, nel suo disegno, parte dal centro. Non esiste una sua squadra in cui il cuore del gioco non sia il motore emotivo di ogni scelta. È proprio il contesto che Ederson stava aspettando da settimane, forse da mesi: libertà senza caos, compiti senza costrizione.
LA SVOLTA POSSIBILE – E allora sì: se questo Ederson è “il cugino”, la versione aggiornata può ridiventare lo stesso giocatore che la Premier, la Liga e la Bundesliga avevano messo nel mirino. La Dea aspetta proprio questo: non un nome, ma un riferimento. Non una promessa, ma un ritorno. Ederson sa cosa significa dominare un centrocampo, Palladino sa cosa serve per farlo tornare dominante. È una congiunzione astrale che la Dea non può permettersi di sprecare.
Riavere Ederson significa riavere la Dea. È un’equazione semplice, quasi brutale: quando lui è brillante, l’Atalanta diventa riconoscibile, feroce, pulsante. Ritrovarlo non è un dettaglio: è un nuovo inizio. E Palladino lo sa benissimo. La rinascita dell'Atalanta passa dai suoi piedi. E soprattutto, dalle sue gambe.






