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Oliver Posarelli: “Sport e studio: si può. Racconto la mia esperienza negli Stati Uniti”

Oliver Posarelli: “Sport e studio: si può. Racconto la mia esperienza negli Stati Uniti”TUTTO mercato WEB
mercoledì 18 giugno 2025, 10:00Serie A
Paolo Lora Lamia

Da Verona alla Florida: non è il titolo di un film, ma la storia di Oliver Posarelli. Classe 1996, cresciuto nelle giovanili del Chievo e poi volato in America per provare ad unire le sue doti calcistiche alla passione per lo studio. Un lungo viaggio reale ma anche interiore, che ha raccontato ai microfoni di TuttoMercatoWeb.com.

Immaginiamo che qualche lettore si imbatta in questa intervista senza conoscerti a fondo: se dovessi descriverti in poche parole, chi è Oliver Posarelli?
“Sono uno studente-atleta. Sono sempre stato una persona a cui piaceva andare a scuola, ho fatto il liceo scientifico e sono sempre stato un atleta. Ho sempre cercato di portare avanti quella che viene chiamata la “dual career”: studiare da una parte e fare sport dall’altra. Alla fine delle scuole superiori, c’è stato un grande vuoto. Sono andato a giocare in Serie D non trovando lo sbocco della Serie C ed è lì che è maturata l’idea: “Che faccio: punto solo a diventare un calciatore professionista o cerco di portare avanti entrambe le cose?”. In Italia quella situazione lì era molto difficile”.

Il tuo percorso ti ha portato ad essere una sorta di pioniere, visto che è difficile trovare calciatori con un vissuto come il tuo. Il piccolo Oliver, quando ha iniziato a dare i primi calci al pallone, se lo sarebbe mai immaginato?
“No, il piccolo Oliver non se l’aspettava: i primi anni della mia vita sono stati un po’ travagliati. Mio padre è toscano, mia madre è veronese: ho vissuto pochissimi anni in Toscana a San Miniato, poi i miei si sono separati anche dal punto di vista logistico e sono andato a Verona. Mai quindi me lo sarei aspettato, però quando avevo 5/6 anni mio nonno mi ha regalato un kit del ChievoVerona e quell’aspirazione lì ce l’ho sempre avuta. Mai però mi sarei aspettato di entrare a far parte della famiglia del Chievo e di fare un’esperienza come quella che ho fatto in America”.

Come reagivano i professori ad una volontà di tenere sullo stesso piano studio e pallone, che immagino non fosse di tutti gli studenti?
“Ci sono stati dei professori che hanno capito le mie ambizioni e hanno sempre cercato di sostenermi, agevolandomi magari cercando di fare delle interrogazioni programmate e di venirmi incontro nelle tempistiche delle votazioni e degli esami da sostenere durante l’anno. Un’altra fetta di professori, invece, preferiva mettermi i bastoni fra le ruote. Mi diceva che dovevo prendere una decisione e che non potevo fare il liceo scientifico e anche giocare a calcio. Finite le superiori, questa scelta era diventata quasi obbligatoria. Non sapendo il mio futuro calcistico e la squadra in cui sarei potuto andare, non sapevo se investire sullo studio iscrivendomi ad un’università di Verona oppure altrove. Alla fine, ho dovuto abbandonare gli studi per circa un anno e dedicarmi solo all’attività calcistica”.

La tua carriera a livello giovanile si sviluppa tra Virtus Verona e Chievo: l'approdo in una squadra di Serie A ha fatto vacillare la tua idea di studente-giocatore?
“Il mio sogno da bambino era quello di riuscire a diventare un calciatore e il fatto che il Chievo mi prese a 14/15 anni, giocando poi quasi sempre da titolare in un campionato come quello Primavera, mi aveva fatto pensare di avere le potenzialità per diventare un professionista. Alla fine dell’anno mi allenavo con la prima squadra e nella Primavera ero anche capitano, quindi tutti remavano dalla mia parte. Però a fine anno, non trovando subito sbocco tra i professionisti e trovandolo nella Serie D, Oliver iniziò un po’ a vacillare. Ascoltando anche l’esperienza in D di giocatori che avevano fatto la C e la B, mi dicevano: “Il calcio porta dei benefici, ma la carriera di un giocatore spesso è brevilinea e se magari uno ha un infortunio o fa qualche investimento sbagliato, poi si trova a 30/35 anni senza aver studiato e senza magari i fondi per poter andare avanti". Queste considerazioni fatte da gente più grande di me quando io avevo 18/19 anni hanno molto influito poi sul mio percorso calcistico e professionale”.

A Verona tra compagni, allenatori, dirigenti e magari anche genitori dei compagni, come veniva vista la tua idea di carriera?
“In una rosa di 25 ragazzi non c’erano grossi geni, ma fondamentalmente neanch’io sono uno scienziato. Mi ha sempre comunque affascinato l’ambito educativo: cercare sempre di formarmi, come studente ma anche come persona. All’interno del gruppo, tutti erano spinti e proiettati nell’ambito del calcio e del professionismo. Il Chievo però come società ha sempre cercato di incentivare anche la scuola, quindi è sempre stato un punto a favore avere qualcuno che andasse avanti anche dal punto di vista scolastico. Le due cose però non coincidono. La società calcistica vuole sviluppare al massimo la parte atletica: è naturale quindi che venga sacrificata quella scolastica, mentre gli insegnati vogliono preservare quella scolastica e che tu abbandoni quella sportiva. Spesso quindi ci sono dei momenti non facili nella vita dello studente-atleta”.

Avendo vissuto da dentro il "mondo Chievo", cosa hai provato quando è fallito nel 2021 e cosa ne pensi della sua rinascita targata Sergio Pellissier?
“Sicuramente è stato un po’ un pugno al cuore vedere il fallimento della società, che era partita da una borgata di qualche migliaio di persone ed era riuscita ad arrivare ai vertici della Serie A continuando ad ottenere risultati positivi nell’arco degli anni. Stava addirittura facendo meglio dell’Hellas Verona, che era da sempre considerata la squadra della città. Mi ha fatto male, avevo tante amicizie all’interno del ChievoVerona e tanti allenatori con cui sono ancora in contatto sono passati da lì. Sicuramente il fatto di avere una personalità e un’icona come Sergio Pellissier che ha avuto il coraggio di metterci la faccia, ripartire dal fondo e tentare di riportare il Chievo agli obiettivi che si era preposto negli anni passati ridà quel senso di unione a tutte quelle persone che hanno amato questa squadra”.

La stagione 2015/16 è stata la tua prima nel calcio dei grandi, in Serie D tra Villafranca e Arzignano. A ormai quasi 10 anni di distanza, cosa pensi di quell'esperienza?
“E’ stato un anno difficile, però nello stesso tempo è stato il momento per riflettere e capire cosa volevo veramente nella mia vita. Inizialmente, andando a Villafranca mi sono inserito in un contesto di Serie D con giocatori più esperti. Un campionato che si basava sui risultati, non come il Campionato Primavera dove contano i risultati ma ha l’obiettivo di far crescere i giocatori. Questa pressione si avverte ed è formativa. Non trovandomi tanto bene nell’ambiente Villafranca, riuscii ad andare ad Arzignano e la mia vita cambiò di nuovo. A Villafranca riuscivo a gestirmi, era vicino a casa. Ad Arzignano mi sono trasferito là, ho vissuto con altri giocatori e quindi facevo la vita del professionista: prendevo i miei rimborsi e con quelli mi mantenevo, ero diventato ufficialmente un calciatore. Lo facevo dalla mattina alla sera e questo ha iniziato a farmi paura, basare tutta la mia giornata e la mia vita solo sul calcio. Ho iniziato ad intravedere la voglia e la necessità di vedere alternative: da un lato, ascoltando l’esperienza dei calciatori più adulti, mi facevo un idea del “cosa farò tra 10 anni se farò solo il calciatore magari se non riesco a sfondare”. Questa cosa mi ha fatto paura, ho cercato alternative e quindi quell’anno lì mi è servito a capire veramente chi fossi io e quali fossero le mie ambizioni”.

Qual è stata la molla principale che ti ha spinto a tentare l'avventura americana, visto che anche altri calciatori hanno scelto di portare avanti lo studio ma qui in Italia?
“Ad oggi, ci sono tanti giocatori che non sottovalutano il profilo scolastico. Penso anche a Giorgio Chiellini, che si è laureato e che è sempre stato dedito anche alla parte formativa e ora anche a quella imprenditoriale. Secondo me, le nuove generazioni avranno sempre un occhio più attento rispetto a quelle del passato nel confronti dello studio e nel lavoro. Nulla toglie però che è complicato a 18/19 anni, magari in un contesto di genitori separati, mettere tutto insieme. E’ importante sempre avere una guida che ti sostiene e fare le scelte giuste. Io ho cercato non solo di studiare, ma anche di fare un’esperienza che mi permettesse di viaggiare e imparare una lingua che mi mettesse in contatto con nuovi mondi. Fare l’università in Italia mi avrebbe messo in una condizione un po’ di comfort, andare fuori mi avrebbe messo a contatto con il mondo e permesso di viaggiare: questo non aveva prezzo per me”.

Quali sono stati i passaggi principali della tua esperienza negli States, che hai raccontato nel libro dal titolo “College: La mia vita da studente atleta in America” uscito a maggio?
“Il mio primo approccio con l’America è stato nel college di Billings in Montana, dove sono stato due anni e ho conosciuto ragazzi provenienti da tutto il mondo. Non è stata magari la prima destinazione che uno si aspetta in America: è stata una meta insolita, ma dove mi sono trovato veramente bene. Sono riuscito ad imparare bene l’inglese e mi sono sentito a mio agio in un contesto di una cultura diversa. Fatti questi primi due anni a Billings, sono andato in un’università più grande di Divisione I a Milwaukee: una città molto grande in questo caso e l’università si chiamava Marquette University. Li si è visto il cambio di marcia dal punto di vista di facilities, quindi di campi sportivi megagalattici e attrezzature. Inoltre, il modo in cui venivamo seguiti dallo staff e dagli allenatori era più alto forse del professionismo in Italia. Avevamo 4 campi da calcio solo per noi, uno chiuso per l’inverno, palestre private e viaggiavamo in aereo per andare alle partite. Mai mi sarei aspettato di entrare in un contesto così competitivo e così confortevole da un punto di vista sportivo e accademico. Nelle squadre in cui sono stato c’erano ragazzi che venivano da tutto il mondo e anche loro magari avevano giocato in settori giovanili professionistici: in Spagna, in Germania o in altri paesi. Un paio di ragazzi che erano con me alla Marquette University sono andati fino in MLS, quindi il livello era molto competitivo. A Marquette mi sono laureato e ho fatto anche un master in Business Administration, per poi finire il mio percorso in Florida a West Palm. E’ stato un viaggio molto intenso e molto piacevole”.

Ad un italiano che i college e lo sport in America li ha visti solo nei film, come racconteresti il legame che c'è negli States tra sport e studio?
“E’ un legame culturale, nel senso che lo sport e lo studio vanno di pari passo dall’inizio della formazione di un ragazzino e di una ragazzina. Infatti, quello che spesso accade in America e che i bambini, quando entrano in un sistema scolastico, vengono affiancati dal sistema sportivo. Non solo quindi all’interno del college c’è questo connubio, ma anche a livello di liceo e di elementari e questa cosa secondo me è bellissima ed è formativa. I ragazzini di solito imparano diversi sport e provano diversi sport. Il campionato calcistico nel college dura da inizio settembre fino a fine novembre, quindi solamente tre mesi. Invece noi siamo abituati in Italia ad una stagione calcistica che dura quasi tutto l’anno. Invece loro hanno questo modo di approcciarsi allo sport che è trimestrale e da bambini provano tre mesi il calcio e poi negli altri mesi si dedicano ad altri sport finché, crescendo, si specializzano in uno in particolare. Tutto questo, senza venire meno agli obblighi scolastici. Infatti, la cosa bella è che le lezioni, i corsi e gli orari in cui andare in classe non sono mai in conflitto con gli orari degli allenamenti. La scuola parla allo sport e lo sport alla scuola e, in base alla varie performance che si hanno, si può accedere a varie borse di studio per facilitare ancora di più e incentivare la voglia di studiare e fare sport degli studenti”.

Impossibile riproporre qualcosa di simile in Italia oppure, a tuo giudizio, si può quantomeno dare un valore maggiore allo sport all'interno del sistema scolastico?
“Purtroppo, ad oggi lo sport da noi ha un valore marginale a livello scolastico. Non si può richiedere agli atenei universitari piuttosto che alle scuole secondarie di sostituire quelle che sono le società sportive. Sarebbe impensabile, anche se qualche accenno di campionati universitari e tornei tra università negli ultimi anni sono venuti fuori. La scorsa settimana, per esempio, c’è stato un grandissimo evento organizzato dall’università di Firenze che si è tenuto al Viola Park. Queste iniziative stanno crescendo, dall’alto verso il basso, quindi partendo dai ragazzi universitari e poi penso che arriveranno alla scuole superiori e via dicendo. Quello che manca, secondo me, essenzialmente in Italia sono le infrastrutture. In America spesso le infrastrutture permettono ai ragazzini di approcciarsi al mondo della palestra già quando sono giovani e approcciarsi a tanti sport già dai primi anni di crescita. Mancando anche le strutture, è difficile che una scuola possa integrare maggiormente quello che è l’esercizio fisico o lo sport competitivo e agonistico. Stiamo comunque facendo dei passi in avanti: si vede per esempio il progetto dello studente-atleta, che cerca di facilitare la vita a quei ragazzi che si impegnano e vedono nello sport un qualcosa in più di una passione e quindi hanno dei risultati. Con il tempo, cioè quello che contraddistingue il cambiamento in Italia e quindi un tempo molto lento, mettendo mattoncino sopra mattoncino si potrà arrivare ad unire le due sfere sportiva e scolastica in Italia in un futuro più o meno lontano”.

Hai accennato alla tua esperienza a Milwaukee, città dove milita la star NBA Giannis Antetokounmpo che ha dichiarato che "nello sport non esiste fallimento". Ti trovi d'accordo con questa idea e quanto secondo te l'Italia è lontana da questo tipo di cultura sportiva?
“Sicuramente nello sport non si fallisce perché, quando una persona si sforza e quindi prova a fare una performance, fondamentalmente lo fa con un obiettivo positivo. Il fallimento gli dà la voglia di proseguire a provare quel gesto tecnico, a rifare quel match e quella partita. Leggevo un po’ di tempo fa una citazione di Federer, che diceva: “Ho sbagliato più del 50% dei punti che faccio nei match”. Questo sta proprio a significare che non importa se sbagli o se perdi una partita, ma fondamentalmente l’idea di uno sportivo è quella di non fermarsi mai, non arrendersi mai e ricercare piacere nella prossima sfida. Spesso c’è il contrasto tra quello che ha detto Antetokounmpo e il pensiero tradizionale italiano: di solito, noi abbiamo questa mentalità del raggiungere l’obiettivo e del risultato immediato che a volte però può frenare la crescita dei giovani e dei movimenti sportivi. Al di là di tutto, io sono convinto che conti il percorso che una società fa e che una federazione fa. Secondo me, c’è sempre da guardare il lato positivo delle cose. La Nazionale calcistica non sta avendo un grande momento, però per esempio il tennis italiano sta avendo una sorta di rinascimento. Allo stesso modo, anche l’atletica negli ultimi anni è riemersa e sta appassionando sempre più italiani. A volte bisogna concentrarsi sui successi, piuttosto che su quello che non sta andando come si vorrebbe”.

Dopo ottimi risultati sia sul piano accademico che calcistico, hai deciso di aiutare i ragazzi che stanno prendendo una strada simile alla tua: ci parli della piattaforma "Studente Atleta"?
“Una volta che ho concluso la mia esperienza, ho realizzato quanto sia stata pazzesca: questo non me lo sono detto allo specchio, ma è anche il frutto delle sensazioni che mi davano gli altri ragazzi quando la raccontavo. Da lì sono partito ad aiutare i ragazzi che volevano intraprendere questo percorso. Mi sono detto che avrei potuto veramente provare a connettere la realtà italiana con il mondo collegiale americano ed è qui che è nata “Studente Atleta”, con l’idea di promuovere la dual career di chi studia e ha la passione per uno sport. Con la mia associazione aiutiamo giovani promesse e giovani talenti italiani a ricevere borse di studio sportive e anche accademiche negli Stati Uniti, per vivere questa esperienza e continuare a sviluppare sia l’aspetto sportivo che quello accademico. Poi sarà compito loro sfruttare al meglio le proprie carte: una volta concluso il percorso, saranno loro a decidere in base ai loro mezzi se continuare la vita sportiva oppure se iniziare magari quella lavorativa. Purtroppo, ho conosciuto tanti ragazzi in Italia che arrivano al punto in cui sono arrivato io ovvero quello della Serie D finite le superiori e le giovanili e decidono se continuare a giocare oppure lasciare lo sport e proseguire con lo studio. Secondo me è quello il fallimento: mettere davanti ad una scelta del genere tanti ragazzi in maniera precoce. Quello che voglio promuovere io è continuare ad essere uno studente-atleta: non puoi a 18 anni fare una scelta così netta. Nel mio libro parlo della mia esperienza ed è un po' una guida che dà i vari step per poter raggiungere questo tipo di borse di studio”.

Vedi una crescita di questa figura dello studente-atleta rispetto a quando tu sei andato in America?
“Quando sono partito io, facevo parte diciamo di una prima mandata e cioè i “primi esploratori”. Inizialmente, gli allenatori americani non riuscivano a distinguere neanche una categoria dall’altra e quindi anche per loro era un salto nel vuoto finanziare i calciatori italiani o atleti e atlete italiani nei vari sport. Con il tempo, però, anche l’America si è fatta una cultura nel capire in quali sport eravamo bravi, in quali categorie e qual era la differenza per esempio tra una Serie D e un’Eccellenza che non è semplice. In questi anni, sicuramente stanno partendo più ragazzi e più ragazze e anche io lo vedo con i miei atleti: inizialmente ho aiutato magari 2 o 3, adesso magari ne aiutiamo 10 o 15 in base alle richieste e alle possibilità che possiamo offrire. L'unica cosa che sta un po’ frenando il tutto sono le uscite provenienti dal governo americano sugli studenti internazionali. Le università americane però si stanno un po’ ribellando, per mettere le cose in chiaro”.

Senza fare i nomi, hai saputo di tuoi compagni e/o avversari che erano convinti magari di sfondare in Italia e poi hanno rimpianto di non aver fatto una scelta come la tua?
“E’ sempre difficile secondo me esternare il rimpianto o emozioni di questo genere in maniera chiara e limpida. Quello che posso dire è che ci sono esempi che ce l’hanno fatta: io in squadra giocavo con Depaoli, che comunque è riuscito a fare una carriera in Serie A; nel campionato nostro c’erano talenti come Barella e Locatelli, che sono riusciti a giocare in Serie A e ovviamente hanno scelto la strada giusta perché avevano quel tipo di talento. Sono convinto che, all’interno dell’80% dei restanti che magari finita la Primavera ha giocato un po’ in Serie D e poi in Eccellenza, molti hanno già smesso di giocare a calcio e magari hanno iniziato a fare qualche tipo di lavoro. Io sono convinto che molti di loro avrebbero preferito fare un’esperienza come la mia. Ci siamo un po’ persi di vista, ma parlando con qualcuno di loro mi ha detto che se tornasse indietro forse prenderebbe anche lui questo rischio e farebbe un’esperienza simile. A volte, fa la differenza uscire dalla comfort zone e quindi andare in America e confrontarsi con una realtà diversa”.

Andiamo verso la chiusura: il calcio italiano sta vivendo giorni difficili, tra il cambio del ct della Nazionale e il timore di una nuova mancata partecipazione ai Mondiali. Si fanno tanti discorsi, ma dal 2010 - anno del primo "disastro azzurro" in Sudafrica - non ci sono mai state decisioni drastiche per cambiare le cose. Da ragazzo che ha fatto le giovanili in Italia, ha esordito nei dilettanti e poi "ha visto il mondo", cosa faresti per dare una svolta al nostro calcio?
“Mi piacerebbe avere una risposta. Intanto, mi auguro che il nuovo ct Gattuso riesca a dare una scossa all’ambiente e a ridare quella passione e quell’attaccamento alla maglia che forse, al di là del gioco, è mancato durante queste ultime fasi del calcio italiano. Mi vengo in mente anche le recenti interviste de “Le Iene”, che hanno un po’ sdoganato il piazzamento dei giocatori all’interno delle rose tramite dei pagamenti. Tiro in ballo anche questo discorso per dire che ci sono tanti fattori che rallentano lo sviluppo del calcio italiano, tanti interessi che spesso non riguardano la crescita dei giocatori e quindi sicuramente tutte queste azioni fanno male al calcio italiano internamente e a come al di là dei nostri confini viene percepito. Proseguendo così, il rischio è di andare all’estero e non avere tifosi al di fuori dell’Italia e dell’Europa. Diluire il calcio italiano vuol dire diluire la Serie A, avere meno persone che comprano i biglietti e meno interesse del mondo italiano con effetti anche a livello lavorativo. Non so quali possano essere le soluzioni, ma sicuramente non c’è miglior modo di fare che osservare e magari copiare le nazioni più virtuose. Non bisogna vergognarsi e guardare dagli altri. Il movimento calcistico spagnolo ha molte squadre che crescono i giocatori nella propria cantera e alcune hanno solo giocatori che provengono solo da quella regione. La Nazionale spagnola ha dei fuoriclasse giovanissimi e purtroppo da noi il dubbio è: “Ce li abbiamo o non riusciamo a fargli spiccare il volo?”. Abbiamo bisogno di una tavola rotonda dove mettere insieme figure come direttori sportivi, procuratori e allenatori, per cercare di configurare un piano di medio-lungo termine per tornare ad essere quel movimento e quella Nazionale che tutti ci invidiavano”.

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