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Dal caso Icardi alle liti con De Laurentiis fino al ritiro di Totti: Spalletti racconta le sue verità

Dal caso Icardi alle liti con De Laurentiis fino al ritiro di Totti: Spalletti racconta le sue veritàTUTTO mercato WEB
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Oggi alle 00:41I fatti del giorno
di Giacomo Iacobellis

Luciano Spalletti, attuale commissario tecnico della Nazionale italiana ed ex allenatore tra le tante di Roma, Inter e Napoli, si racconta per la prima volta in un'autobiografia. «Il Paradiso esiste... Ma quanta fatica», in uscita questo martedì ed edito da Rizzoli. Svariati i temi toccati, con tanti retroscena sulla sua carriera da allenatore: dal caso Mauro Icardi in nerazzurro al ritiro di Francesco Totti in giallorosso fino al rapporto difficile col presidente Aurelio De Laurentiis in Campani. Di seguito tra fra le anticipazioni più interessanti del libro.

Il caso Icardi
"Il passaggio veramente critico all'Inter fu quando Wanda Nara, la moglie del capitano, andò a dire in televisione cose che non avrebbe dovuto dire contro i compagni di squadra di Mauro. È vero che era il suo procuratore, però era anche sua moglie. Era febbraio 2019, ci trovavamo nel bel mezzo del campionato. Fu devastante. Non avevo scelta, dovevo fare qualcosa per la squadra, dovevo proteggerla. Lo spogliatoio era rotto e non si poteva fare come Ponzio Pilato, bisognava schierarsi. Io sono un allenatore-chioccia, devo sempre tutelare i miei giocatori, è più forte di me. Da chioccia ci metto un istante a diventare tigre. La mattina successiva furono diversi i calciatori a venire nel mio ufficio a parlarmi di questa vicenda. C'era anche Handanovic, un uomo verticale, dalla personalità di ferro. Insomma, non si poteva far finta di nulla, né si poteva stare li a incollare i pezzi. Non c'era verso. Tant'è. La grande maggioranza dei tifosi lo capi e mi sostenne. Che io non sapessi tenere uno spogliatoio e non sapessi gestire i campioni fu più che mai una critica ingiusta e gratuita. La situazione precipitò quando mi resi conto che la debolezza del nostro capitano si chiamava Wanda e rischiava di portare a fondo tutto il gruppo. E questo non potevo tollerarlo. Mauro in quel momento stava attraversando un momento calcisticamente difficile, le cose non giravano come avrebbe voluto. Non riusciva a segnare come faceva di solito. Lei disse che, se si voleva che Icardi facesse più gol, bisognava acquistare giocatori che lo aiutassero a farli. Avere giocatori migliori, insomma, il concetto era questo. Insopportabile. Una bomba. Era una di quelle dichiarazioni che non si potevano liquidare con un WhatsApp, una storia su Instagram o un like; per rimettere le cose a posto occorreva parlare guardandosi negli occhi, alla vecchia maniera. C'era un solo modo per evitare una guerra nello spogliatoio: le scuse di Mauro Icardi. Non arrivarono mai. Il giorno dopo chiesi al capitano, davanti a tutti i compagni, di spiegare le parole di Wanda Nara. Di giustificarle in qualche modo. Mi sembrava il minimo, come forma di rispetto per gli altri. Mauro rispose che a parlare non era stata la moglie Wanda, ma il suo procuratore Nara, e che l'aveva fatto esclusivamente a questo titolo. Era impossibile gestire la situazione. Non c'era verso. Dovetti dirgli due cose, togliergli la fascia di capitano e darla ad Handanovic. Il consenso della società c'era, ma era silente. Lui la prese male, molto male. Di fatto, per non perdere la squadra, persi Icardi, l'uomo e il calciatore".

Il ritiro di Totti
"Francesco Totti è, nel bene e nel male, l’esempio più estremo del mio modo di rapportarmi a un calciatore. Molti hanno sostenuto che sono stato io a far ritirare Totti. Falso. Il mito di Totti, la bandiera, erano aspetti che andavano gestiti dalla società, non da me. L’avevo chiesto con chiarezza al mio ritorno. Non mi si doveva mandare al massacro in quell’uno contro tutti. Io ho sempre messo in campo la formazione con cui pensavo di vincere, né più né meno. Ma la Sud a un certo punto si è schierata contro di me. Eppure, la squadra era con me: se avessi fatto dei torti al loro capitano — considerato che in spogliatoio c’era gente di personalità del calibro di De Rossi, Strootman, Nainggolan, Seydou Keita, Maicon –, i giocatori sarebbero certamente insorti a difesa di Francesco. Ma così non è stato. A nulla è servito ribadire, nei mesi successivi, che non sono stato io ad allontanare Totti dalla Roma. Ero disponibile ad assecondare qualunque sua scelta. Per rafforzare questo concetto e liberare Totti dal nemico Spalletti, ho detto pubblicamente che non avrei rinnovato il contratto con la Roma: mi sono dimesso anche per questo motivo, per evitare che mi fosse addossata una responsabilità che non avevo e che non era giusto darmi. La verità è che — giusto o sbagliato che fosse — il destino del numero 10 a Trigoria era segnato. Ma la verità, si sa, è solo di chi la vuole vedere. Abbiamo sbagliato tutti in quella situazione. Di sicuro, Francesco Totti è stato il capitano a cui mi sono dato di più. Amavo pensare che il mio destino di allenatore stesse nei piedi di questo gigante del nostro sport. Mi sentivo protetto dal suo enorme talento. Ho fatto cose per lui che non ho fatto per nessun altro. Francesco non può nemmeno immaginare quanto io abbia compreso le sue ragioni, le sue esitazioni, il suo dramma nel dover lasciare il calcio. Carne della sua carne. La sua carne era parte della Roma, lui era la Roma, anche la sua ruggine lucidava il metallo. Io, però, come responsabile chiamato per rigenerare un gruppo in difficoltà, dovevo pensare e agire diversamente. Io dovevo pensare al bene della squadra. Lui, come tanti altri campioni prima e dopo di lui, non riusciva ad accettare che fosse messa la parola fine a quella storia grandiosa. Nasce qui l’incidente. E l’equivoco. Ciò che pensavo era che quel Totti lì, un totem di quasi quarant’anni, dalle virtù calcistiche intatte ma dalla mobilità inevitabilmente ridotta, dovesse essere utilizzato con parsimonia: entrare in campo con tutta la sua forza carismatica e la sua esperienza nelle situazioni difficili per esaltare lo stadio e per aiutare la squadra. Nella mia testa era questa l’uscita di scena più dignitosa possibile per uno con la sua storia. Totti è stato idolatrato a Roma e questo probabilmente lo ha viziato un po’, gli ha impedito di percepirsi diversamente. Francesco per me sarà sempre come un figlio, allo stesso tempo la sua ex moglie non sarà mai per me come una nuora. Quando lei mi offese gratuitamente presi ancora più consapevolezza di quanto fossi un uomo fortunato ad avere al mio fianco una compagna molto intelligente, che mai mi ha messo in imbarazzo intromettendosi con così tanta arroganza e maleducazione nel mio lavoro. Può capitare, nel corso di una vita, di essere un piccolo uomo o una piccola donna. Certamente lo è stata lei quando si è permessa di rivolgersi a me in quel modo. C’è una cosa che non gli ho mai detto, a Francesco, nemmeno il giorno in cui ci siamo riabbracciati al Bambin Gesù, e ne approfitto per dirgliela ora. Una notte, quando in città non si parlava d’altro che di noi, della nostra storia, ti ho sognato mentre mi venivi a dire queste parole: 'Mister, ho capito di aver sbagliato con te. Ho capito che, in realtà, tu non mi stai penalizzando come pensavo ma, al contrario, stai facendo di tutto per allungarmi la carriera…'. Poi mi sono svegliato".

Il rapporto con De Laurentiis
"Ho chiuso con il passato, ma Napoli e i napoletani non saranno mai il mio passato. Sono andato via perché non avevo più la voglia di sostenere questo continuo conflitto caratteriale con un imprenditore capace, a cui la città deve tanto, ma con un ego molto, forse troppo grande. Aurelio De Laurentiis. Il presidente era quello che metteva la ceralacca sulle cose, su tutto, che certificava se una scelta era giusta o meno. Ero stanco di fare battaglie per ogni questione. Che fosse dare una maglia ai giocatori che la chiedevano per i loro figli o il dover cambiare gli alberghi di continuo per i motivi più disparati. Anche in questo, il Sultano sapeva sorprenderci. L’uomo, si sa, è molto estroso. Imprevedibile. Capace di quel ragionamento in più che ti spiazza. Come quella volta, agli inizi della mia storia al Napoli. Il nostro albergo abituale era in corso Vittorio Emanuele. Arriva la Juventus e ci viene comunicato che dobbiamo cambiare «casa». Uno sfratto esecutivo. Noi veniamo dirottati in un altro hotel in centro, scomodo per lo spostamento verso lo stadio, con i naturali dubbi che una mossa del genere può far nascere nei calciatori. Tipo quello che sulle nostre abitudini comandino gli avversari. Quell’anno, questo cambio forzato si verificò varie altre volte: avemmo a che fare con quattro-cinque strutture diverse. Insomma, in tutta la mia storia a Napoli, ho giocato due partite contemporanee: quella con gli avversari e l’altra con il presidente. Un confronto costante, spesso al confine dello scontro. La stagione dello scudetto, alla vigilia di una partita difficile, il presidente mi scrisse, secondo lui per motivarmi: «Puoi andare dodici punti da solo in testa, carica i ragazzi!». Aveva aperto il rubinetto dell’acqua calda. Gli risposi: «Grazie del prezioso consiglio, presidente, ne terrò conto». Il suo amore per il Napoli, quell’anno, lo dimostrò soprattutto quando cessò non solo di commentare le formazioni ma anche di parlare in pubblico, ai giornalisti. Fu un silenzio che fece rumore. Il più grande sacrificio per uno come lui, intrattenitore e uomo di spettacolo che ama occupare il centro della scena. Il Napoli stava marciando alla grande, giocava un calcio bellissimo e riconosciuto nel mondo, tutto filava alla perfezione e lui, uomo arguto come pochi, capì in fretta che tanta bellezza avrebbe trascinato altrettanta economia. Possiamo dire che il suo eroico silenzio, la sua scelta di non parlare con i media, fece il paio con la mia di vivere come un monaco nel rifugio di Castel Volturno. Due uomini molto diversi che facevano il loro voto di castità alla causa del Napoli. Ognuno a modo suo. Forse, devo immaginare, fu quella stessa ritrosia, quella stessa voglia di non figurare da protagonista, che lo spinse a non farsi sentire la sera dello scudetto. L’eccesso di riservatezza lo indusse a non farsi vivo nemmeno con una telefonata per condividere se non altro l’impresa, mentre la città intera impazziva di gioia. Non telefonò la sera che vincemmo il campionato. Né all’allenatore, né ai giocatori, né al direttore, né al team manager. Non telefonò a nessuno. Troppo impegnato a giocare la sua partita personale sul prato festante del Maradona. Tutte quelle sterzate nel giro di campo in solitaria lo avevano distrutto. Telefonò il giorno dopo, perché aveva programmato di farci atterrare all’aeroporto militare di Grazzanise anziché a Capodichino. E in questa telefonata ci chiese, da uomo educato qual è, com’era andato il viaggio. Seguì un nuovo silenzio. Qualche tempo dopo, il presidente mi fece recapitare dal nuovo direttore del centro di Castel Volturno assunto da poco, che io quasi non conoscevo, una sua lettera scritta a mano. Esauriti in una riga e mezzo i formali complimenti per lo scudetto, mi sottoponeva la necessità di attenermi al contratto, rispettando il suo prolungamento automatico per un altro anno. C’era un’opzione che gli riconosceva il diritto unilaterale di avvalersene. Lui, alla firma del contratto, si era fissato che voleva fare due anni più due di opzione. A fatica ero riuscito a levargli un anno di opzione. Nel suo entusiasmo congenito che, a volte, sconfina nell’eccessiva sicurezza di sé, al presidente viene facile dimenticare che, dietro i contratti, non ci sono solo dei dipendenti ma degli uomini. Come gli feci presente di rimando in una mia lettera, anch’essa scritta a mano, sarebbe stato utile e giusto parlarsi, per il bene del Napoli. Farlo, magari, avrebbe cambiato il corso delle cose. Invece lui, già a marzo, intervenendo al Maschio Angioino alla consegna del premio Bearzot che avevo vinto, prese il microfono e si fece la domanda che nessuno gli aveva fatto: «Vuole domandarmi se Luciano Spalletti resterà al Napoli?» chiese al conduttore della cerimonia. «Luciano Spalletti resterà al Napoli» si rispose. Forte della convinzione di potermi imporre la sua volontà. Ancora oggi in tanti mi chiedono: «Ma se il presidente si fosse comportato diversamente allora, se avesse mostrato maggiore attenzione e sensibilità, avresti fatto una scelta diversa? Saresti rimasto al Napoli?». Domanda che ho sempre lasciato cadere. La risposta è sì, se ci fosse stato più rispetto umano, più dialogo e più apertura su cosa ci volesse per rivincere, alla fine sarei rimasto. In ogni caso, lo ringrazierò sempre per avermi permesso di allenare il Napoli".

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