Collina: “Quando persi i capelli mi dissero di aspettare la ricrescita. Inter-Juve nel ’97…”

Pierluigi Collina, protagonista dal palco di “Legendary referee”, panel organizzato nell’ambito del Festival della Serie A, ha ricordato un famoso episodio con Repka e Davids: “Bisogna capire cosa è necessario in alcuni momenti, non sempre è necessario un atteggiamento del genere. La cosa che non è possibile fare con un giocatore è convincerlo che tu hai ragione e lui ha torto: in partita è impossibile da ottenere. Magari dopo la partita ci riesci, ma in quel momento è inutile anche solo provarci. Nel 2002 arbitrai Argentina-Inghilterra ai Mondiali, non proprio un’amichevole: uno degli assistenti mi segnalò un’ammonizione e andai ad ammonire Batistuta. Lui non era contento, perché ai Mondiali un’ammonizione pesa: al rientro in campo mugugnava, noi ci conoscevamo bene ed era fondamentale venire fuori da quella situazione. Gli spiegai che l’assistente mi aveva detto di ammonirlo perché era di origine cilena e ce l’aveva con lui: capì che non era davvero così, fu una maniera di uscire fuori da una situazione che poteva crearci problemi”.
Una sua qualità fondamentale è stata conoscere il calcio e i calciatori: quanto è stato importante per lei?
“L’ho sempre ritenuto un aspetto fondamentale, per una semplice ragione. Quando sei chiamato a prendere una decisione, se hai a disposizione tutti gli elementi che ti possono servire è molto probabile che la decisione sia corretta. Se sei sorpreso da qualcosa, è probabile che sia sbagliata e sarebbe casualità se fosse corretta. Ho cercato sempre di farlo: ricordo i Mondiali nippocoreani, mi feci dare dall’organizzazione i VHS delle partite giocate da Brasile e Germania fino a quel momento. Mi avrebbe aiutato a capire cosa sarebbe potuto succedere in finale: se sei un passo avanti, è facile che tu sia nelle migliori condizioni per poter prendere una decisione corretta. Agli Europei 2016 alla UEFA avevamo due allenatori, che dall’anno prima avevano iniziato a lavorare con noi, cercando di dare agli arbitri informazioni su quello che sarebbe potuto succedere in partita. Queste persone lavorano costantemente con noi anche in FIFA ancora oggi. Se ci pensate, in settimana l’arbitro si allena solo fisicamente, non ha partite da arbitrare”.
L’idea di potersi allenare in settimana con una squadra professionistica potrebbe aiutare?
“Beh, quello che succede in un’amichevole o in un allenamento è diverso da quello che succede in campo. Però sicuramente è meglio di niente. Noi lavoriamo con le Under 20: loro lavorano per noi, si adeguano a quello che ci serve. Impostando quel tipo di rapporto dovrebbe essere l’arbitro ad adeguarsi ai club: non può certo chiedere che una società si organizzi in base alle necessità dell’arbitro”.
Quanto vedi cambiato il calcio di oggi?
“La velocità anzitutto: l’aumento di fisicità e velocità credo sia costante. Non entro nel merito della qualità, perché non è il mio lavoro, ma intensità e ritmo di gioco sono oggettivamente cresciuti tanto negli anni. È una cosa che riguarda anche gli arbitri, anche per loro è necessaria una componente atletica per essere all’altezza dell’intensità che viene richiesta. Se io penso a me stesso o ad arbitri della mia generazione, nel calcio di oggi molti avrebbero grossi problemi. Non è solo essere presente, è anche mantenere lucidità: abbiamo visto arbitri arrivare alla fine di un test senza sapere chi erano e dove erano. Avevano completato il test atletico, ma cerebralmente erano morti: se non hai lucidità in campo, è inutile. Non basta essere allenati”.
Quest’anno in Italia ci sono stati diversi problemi di infortuni tra gli arbitri…
“Se stai seduto a una scrivania è difficile farti male, se vai in campo è più facile. Bisogna prevenire: l’alimentazione è fondamentale, noi per il Mondiale per club abbiamo uno chef nostro. Fare controlli medici è centrale, recuperare è fondamentale. Noi abbiamo questa competizione quest’estate, in condizioni climatiche difficili: tutto l’aspetto di integrazione è diventato fondamentale”.
Quanto è importante la comunicazione nell’arbitraggio moderno?
“È fondamentale. Non puoi pensare di poter convincere qualcuno, ma fargli capire perché hai preso una decisione è molto utile. Magari non si convincerà, ma capisce su che basi si fonda la decisione che hai preso. Io qualche dote comunicativa ce l’ho, però quando ero ancora abbastanza giovane ricordo un arbitro che non era così famoso, lo svedese Fredriksson, che era estremamente plateale nel comunicare quello che veniva detto. A noi veniva detto di non usare le braccia, a un italiano… A me il comportamento di Fredriksson sembrava scoprire l’acqua calda: più sei chiaro, più riduci il problema. Iniziai a fare in questa maniera, e ricordo che all’inizio me la contestavano: poi ho avuto la fortuna di essere stato bravino, per cui certe cose che facevo io mi venivano consentite. Altrimenti no: quando persi tutti i capelli e i peli sul corpo, a 25 anni, mi dissero ‘aspettiamo che ricrescano’. All’epoca non era una moda come oggi, chi era calvo si inventava riporti infiniti… Mi mandarono a fare una partita a Latina, nelle serie minori, e sarò sempre grato nei confronti di quel pubblico: di un arbitro pelato non gliene fregava nulla, gli importava la sostanza. Ai tempi non era scontato. Per me comunicare è fondamentale”.
Con Hodgson fu praticamente il protagonista della prima On Field Review.
“È un’Inter-Juventus del 1997, avevo esordito in A nel ’91 e quindi ero ancora in crescita. Dopo 20 minuti parte Ganz verso la porta della Juve: Peruzzi para, riprende palla Ganz e fa gol. L’assistente va a centrocampo, con Ganz che sembrava in fuorigioco: io dico ‘boh, ci sarà qualcuno che lo tiene in gioco’, non è possibile che l’assistente non alzi la bandierina. Poi tutti a protestare e sento l’assistente rispondere a un giocatore: ‘l’ha colpita all’indietro’. Credo si parlasse di Montero, ho capito che era quello il motivo, non il mancato fuorigioco: io avevo la certezza che l’avesse toccata Zamorano in avanti. Gli chiesi se Ganz fosse in fuorigioco, lui mi disse di sì ma che l’aveva toccata Montero all’indietro. Per cui non sapevo cosa fare: annullare il gol era complicato, dovevo giocare 70 minuti e non potevano diventare un calvario. Il primo a cui spiegare era Bergomi in campo: lui protestò, gli dissi di credermi. Poi il problema sono le panchine: andai nella buca e mi sembrava naturale, per parlare con una persona che è a un metro e mezzo di me, mettere il ginocchio a terra. È diventata una foto iconica”.
Uno dei momenti più delicati è il controllo al monitor. “Non è facile, perché gli arbitri fino a un certo livello lavorano con la necessità di difendere sempre e comunque la decisione presa in campo, che è sacra. Poi sali e trovi la tecnologia, che non puoi affrontare con la paura di dover cambiare la decisione: è un approccio totalmente diverso, un cambio di forma mentis non così semplice. La fortuna è che, se correggi un errore fatto in campo con la tecnologia, a fine partita nessuno è interessato all’errore iniziale. Nessuno contesterà mai l’arbitro se la decisione finale è stata corretta. Poi ovviamente il designatore dovrà valutare la prestazione”.
Come vede l’idea di aprirsi all’ascolto degli audio Var? “Io credo che spiegare sia sempre una cosa positiva. Chiarire, rendere la gente partecipe tramite le immagini è una cosa ottima: al Mondiale per club saranno trasmesse dai maxi-schermi dello stadio le stesse immagini che vede l’arbitro al monitor. Da un po’ di anni, nelle competizioni FIFA, stiamo facendo gli annunci che avete provato a fare in Coppa Italia (non c’è stato alcun episodio di OFR tra semifinali e finale, ndr). A inizio sperimentazione abbiamo fatto l’inverso: prima decisione e poi spiegazione, ora abbiamo capito che è meglio fornire prima la spiegazione e poi la decisione, altrimenti col boato la prima non si sente. Sono tutte strategie comunicative importanti: non convincerai nessuno, ma spiegare il perché di una decisione è molto utile”.
Qualche indicazione sulle prossime novità regolamentari?
“Una, la più importante, risponde a una logica di cercare di mantenere spettacolarità. L’obiettivo è questo, e non credo che qualcuno possa pensare che avere un portiere con la palla tra le mani sia spettacolare. Non credo che qualcuno pagherebbe il biglietto per questo. È sempre esistita una regola che impone al portiere il limite di 6 secondi: mi piacerebbe sapere quando è l’ultima volta che avete visto un portiere punito per aver tenuto il pallone per un tempo superiore. Ci sono portieri, in ogni lega mondiale, che lo tengono fino a 25 secondi: è un’eternità, ma ci arrivano e l’arbitro non interviene. Per un semplice motivo: deve dare un calcio di punizione indiretto all’interno dell’area di rigore e diventa un problema gestirlo, come avveniva per i calci di rigore fino al 2019. Ricorderete portieri parare rigori due metri fuori dalla linea di porta, e l’arbitro non faceva ripetere perché temeva di essere massacrato. Abbiamo chiesto ai portieri: come potete riuscire a parare? Ci hanno detto che bastava tenere un piede sulla linea di porta. Abbiamo detto: ok, ma quello deve starci e saremo fiscali. Abbiamo ridotto i numeri. La logica è la stessa dei 6 secondi: abbiamo chiesto ai portieri e ci hanno detto che sono pochi, allora abbiamo detto che saranno 8 e che però quelli saranno. Poi, per evitare il problema del calcio di punizione indiretto, abbiamo introdotto il calcio d’angolo per gli avversari: è un mezzo per togliere il possesso al portiere intenzionato a tenerlo. Dobbiamo cercare di fare in modo che il tempo effettivo aumenti”.
