Il paradosso del calcio moderno: si gioca troppo ma nessuno vuole davvero fermarsi

"Noi abbiamo giocato 63 partite quest’anno, voi?". "70, 70 nello stesso periodo". Lo scambio tra Enzo Maresca e un giornalista presente durante la conferenza stampa in vista della sfida tra Chelsea e Fluminense ha fatto il giro del mondo per il colpo incassato dal tecnico italiano, ma ci pone di fronte a una riflessione che non si può più rimandare.
Il confronto tra le due realtà ha posto ancora una volta l'accento sul problema del calendario sempre più congestionato del calcio moderno. Troppe partite, troppi sacrifici, molti rischi, tanti infortuni. Se da un lato la maggior parte degli allenatori si preoccupa, a ragione, del carico fisico al quale sono sottoposti i calciatori, dall’altro è innegabile che il sistema continui a crescere in volume e ricavi. Le partite aumentano, è vero, ma anche i contratti. Stipendi milionari, bonus, commissioni per gli agenti: un'industria che ormai si regge grazie all'equilibrio garantito da quello stesso circo mediatico che si vorrebbe combattere.
E così, in un contesto in cui i club sauditi hanno falsato il mercato con offerte fuori da ogni logica anche per profili di secondo piano, in cui si spendono vagonate di milioni per giovani che finiscono presto nel dimenticatoio, in cui il 40enne Ronaldo incasserà 25.000 euro all'ora grazie al nuovo contratto, pretendere di disputare meno gare diventa complicato. Più partite significano meno riposo, più stanchezza ma anche più incassi, più esposizione, più peso contrattuale. È il paradosso del calcio moderno: si gioca troppo e quasi tutti si lamentano, ma nessuno vuole davvero (e può) fermarsi.
