Marchisio: "Tanto preoccupato dalla Nazionale. Soluzioni? Un tetto a utilizzo extracomunitari"

Claudio Marchisio è preoccupato per il calo della Nazionale negli ultimi anni. Lo è "parecchio", dice l'ex centrocampista della Juventus ai taccuini del Corriere della Sera, approfondendo il discorso e tirando in mezzo i pochi giovani che il nostro calcio culla e cresce: "Io ora ho un’agenzia da procuratore e posso dire che i dati di cui disponiamo sull’utilizzo di giocatori italiani sono davvero allarmanti. Due o tre anni fa il campionato Primavera l’ha vinto una squadra in cui non c’era neanche un italiano in campo. E solo il 2% di quei ragazzi extraeuropei è poi diventato un calciatore professionista. Il regolamento stabilisce che gli stranieri possono arrivare dopo l’under 16. Da quel momento in poi di ragazzi italiani ed europei se ne vedono ben pochi nelle formazioni giovanili. C’è anche un grande sfruttamento economico degli adolescenti delle parti povere del mondo».
Cosa si potrebbe fare?
"Bisognerebbe stabilire che nei campionati giovanili si possono schierare in campo al massimo tre extraeuropei, per arrivare a sei o otto nelle prime squadre. E poi il campionato Primavera un tempo era per gli under 19. Vuol dire che a quella età si finiva la trafila del calcio giovanile e si veniva proiettati in quello professionistico. È stato così che io ho giocato a 23 anni il primo Mondiale e a 26 il secondo, quindi nel pieno della mia forza fisica e agonistica e già con una giusta esperienza. Ora sono campionati under 20, in cicli triennali, e al terzo anno di primavera puoi trovarti a giocare con ragazzini di 17 anni, il che non aiuta la tua formazione. Rino Gattuso ha detto, nella sua presentazione, che il livello di presenza dei calciatori italiani si attesta poco sopra il 35%. Ci sono squadre in serie A che giocano senza neanche un ragazzo formato nel nostro Paese. Si compra e si vende, come tutto, nella società globalizzata. Ma il bello, nello sport, è formare".
Non esiste anche un problema di legame sentimentale tra tifosi e squadre? Non ci si affeziona più ai giocatori, elemento decisivo dell’emotività del calcio.
«Non è facile, è cambiato tutto a livello culturale, non solo nel calcio. Anche nel lavoro: insegniamo ai nostri figli che, se non si trovano bene in un lavoro, devono subito cambiarlo. Ci sono ragazzi che se per un campionato stanno più in panchina che in campo, vogliono subito cercare un’altra squadra oppure sostengono che l’allenatore complotta contro di loro. Invece io chiedo loro se hanno davvero dato tutto. Perché le difficoltà si superano, non si aggirano. E così si cresce. Su dieci spostamenti di ragazzi, nove sono sbagliati. Alex Sandro arrivò alla Juve e mi chiese se ero matto, visto che stavo in bianconero dal 1993. Gli risposi che era il mio sogno e che restare alla Juve era come avere un domicilio in paradiso, era casa mia. I soldi sono importanti, ma non sono tutto. I giocatori che finiscono in campionati in cui l’unico valore è il denaro, si spengono dentro, a 28-29 anni sono vuoti».
