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esclusiva

Fioranelli (San José): "Oggi i calciatori possono scegliere tra MLS ed Europa"

ESCLUSIVA TMW - Fioranelli (San José): "Oggi i calciatori possono scegliere tra MLS ed Europa"
sabato 27 marzo 2021, 15:00Serie A
di Ivan Cardia
Le nuove proprietà americane, l’avvento dei big data e l’arrivo dei nuovi talenti. L’America scopre il calcio, il calcio scopre l’America: TMW racconta il soccer e la MLS.

La MLS è pronta a tornare in campo. Complice l’exploit dei tanti talenti a stelle e strisce, da Pulisic allo juventino McKennie, i fari sono puntati sul massimo campionato statunitense che ripartirà con la regular season il 17 aprile. Ne abbiamo parlato con Jesse Fioranelli: “La nostra filosofia è quella di migliorare anno dopo anno, con un duplice obiettivo – spiega a TMW il general manager di San José Earthquakes, in passato dirigente di Lazio e Roma - identificare e far crescere giocatori con una certa prospettiva e allo stesso tempo proporre un identità di gioco propositiva e aggressiva. Il nostro allenatore, Matias Almeyda, che in Italia conoscete benissimo, è molto coraggioso: mette molta enfasi su un gioco offensivo, fisico, segnato dalla volontà di controllare i flussi di gioco con una certa aggressività in fase difensiva e in attacco. Ci sono dei paralleli con Gasperini e De Zerbi, sia per lo stile di gioco che per la volontà di provare a imporsi sull’avversario”.

Si riparte dopo un periodo molto pesante. Qual è stato l’impatto della pandemia sul calcio statunitense?
“Come in Italia, o in generale in Europa, la MLS ha subito un impatto molto forte a livello economico e sportivo. Ma anche sociale, data l’assenza dei tifosi. Ci ha protetti il fatto che la lega fosse molto preparata nel sapersi adattare a situazioni di emergenza: un esempio su tutti, il torneo in Florida (MLS is Back, disputato da luglio ad agosto 2020, ndr). È stato organizzato nell’arco di due mesi, in una situazione di grande incertezza e si è verificato un modello esemplare a livello competitivo. Quasi duemila persone hanno passato un mese e mezzo a Orlando, proseguendo la competizione in questa bolla: pur essendo una realtà calcistica ben diversa, ha dato fiducia a tutte le squadre. Ha fatto capire che c’era la possibilità di mandare avanti il campionato con protocolli ben definiti, che c’era la possibilità di portare a termine la stagione durante la pandemia rispettando l’integrità della competizione. Oggi, penso che siamo arrivati a un punto nel quale abbiamo imparato tante lezioni del passato. La più grande è che non dobbiamo pensare di sapere tutto: dobbiamo sempre saperci adattare alla realtà”.

Ha menzionato i tifosi. Ci saranno, al ritorno della MLS?
“Sì. Saranno sicuramente limitati e scalati in base alla situazione Covid del luogo dove si giocherà. Per capirsi: in certi stadi si partirà da un 20 per cento della capienza massima, in altri magari un terzo. Con l’obiettivo e la speranza di poter aumentare l’affluenza nei prossimi mesi: siamo ottimisti sul processo di vaccinazione”.

Il mondo guarda al calcio Made in USA. Anche perché, per la prima volta, tanti calciatori americani si stanno imponendo in Europa. Cos’è successo?
“Credo che alla base di questo boom, se vogliamo chiamarlo così, ci siano due motivi. Il primo è che si è investito fortemente: nello sviluppo dei giocatori, ma anche a livello di infrastrutture. Basti pensare che soltanto negli ultimi 5 anni sono stati costruiti otto nuovi stadi e otto nuovi centri sportivi. Sono passaggi che rendono più efficace e professionale sviluppare giovani calciatori di talento. In un quadro di investimenti a tutti i livelli, nelle Youth academy, per esempio, e non soltanto sui calciatori: si è puntato sugli allenatori, affinché avessero un metodo nella formazione. L’obiettivo è stato fissare un “benchmark” alto in MLS da rispettare per far sì che lo sviluppo dei giovani venga accelerato e supportato: intendo a livello di performance dei singoli, di loro analisi, e di competitività. C’è anche una nuova competizione, la MLS Next: permetterà al calcio giovanile di essere meno frammentato. E poi, in secondo luogo, un fattore strutturale”.

Prego.
“Mi riferisco alla struttura single entity (in base al quale la MLS è titolare delle franchigie e dei rispettivi contratti. La proprietà è unica e fa capo alla lega, chi guida le società detiene soltanto i diritti a operare: qui l’approfondimento TMW). Crea parità tra le varie società e aiuta a sviluppare il prodotto calcio. Le squadre sono azioniste in questo franchise system: per questo hanno tutte interesse al miglioramento del prodotto. È un modello sostenibile e meno speculativo rispetto ad altri campionati: non c’è il dominio di 3-4 club, ma un prodotto da costruire insieme a livello nazionale, perché così porta benefici a tutti gli azionisti. Cioè alle varie società e la loro direzione sportiva e soprattutto per i tifosi.”

È cambiato anche l’interesse degli statunitensi, e dei ragazzi più giovani, verso il calcio?
“Io credo che non sia questo il punto. Quattro-cinque anni fa, quando la MLS ha avuto l’occasione di espandersi a livello societario, ha preso decisioni strategiche molto rilevanti. Ha fatto investimenti mirati per quanto riguarda gli stadi, ma anche le zone su cui puntare, nonché le risorse tecniche e umane. Dai giocatori agli allenatori, passando per gli staff. Questo ha permesso ai giovani, penso alla categoria dai 12 ai 18 anni, di scegliere di puntare sul calcio. Si sono resi conto che la MLS non era più soltanto in espansione, ma è diventata una realtà in grado di competere con la NBA, la NHL, per dare a questi atleti un futuro”.

Qual è l’obiettivo? Arrivare a competere con i Big Five del calcio Europeo entro il 2026, l’anno del mondiale nordamericano?
“Secondo me troppe volte, in passato, l’America si è voluta comparare con l’Europa. Negli Stati Uniti c’è un modello unico di gestione dello sport, con dei vantaggi che magari non vengono apprezzati abbastanza. La crescita graduale e sostenibile di cui abbiamo parlato finora, consentita dal single entity franchise system, lo rende il più attrattivo e il più resistente, anche per una crescita futura, in momenti di incertezza globale. Quanto all’essere competitivi, la realtà di oggi è molto diversa rispetto a quella di quattro anni fa. Oggi, ogni squadra della lega ha due-tre talenti importanti che vengono cercati da squadre europee. Se guardo in casa nostra, abbiamo almeno tre-quattro giocatori che sono interessanti per il mercato europeo. Quando sono arrivato a San José la situazione era molto diversa, tra qualche anno questo motore avrà messo radici ancora più solide, e avrà carburante a sufficienza perché questo modello venga preso in grande considerazione. Anche a livello di visibilità e competitività”.

Però oggi il Vecchio Continente resta l’obiettivo di chi vuole diventare un grande calciatore. Quando arriverà il momento in cui il flusso s’invertirà, o semplicemente per un giocatore statunitense avrà più senso, per la propria carriera, rifiutare una chiamata dall’Europa?
“L’attuale generazione è nata con la speranza di poter giocare un giorno in Champions League, è vero. Chi nasce oggi, però, ha già un’alternativa molto diversa. E quel momento è già qui. Le faccio un esempio concreto: con noi gioca un centrocampista che si chiama Jackson Yueill, capitano della squadra olimpica. L’anno scorso doveva decidere se andare in Europa o restare negli USA: ha prolungato con noi, pur sapendo che avrebbe potuto giocare in Bundesliga o in Serie A. Non è che non apprezzasse o non apprezzi il calcio europeo: ha fatto un ragionamento di prospettiva. E oggi la MLS ne offre una che cinque anni fa non aveva. I giocatori hanno più opzioni e possono riflettere: se voglio crescere, faccio questo passo soltanto se ha senso per me. Così, se la Roma bussa a Dallas per Reynolds, quest’ultimo non si tira indietro. Però, da un altro punto di vista, in questo momento ci sono due giocatori per squadra al livello di Reynolds in MLS che stanno riflettendo su quale sarà il prossimo passaggio nella propria carriera e prendono in considerazione la possibilità di rimanere nella propria squadra. A soli 24 anni, Jackson Yueill si è messo la fascia da capitano al braccio sia in MLS con San José che per la nazionale”.

In tutto questo processo, quanto ha pesato il mondiale del 2026?
“Sicuramente ha influito molto: c’è la consapevolezza che tra cinque anni si disputerà un mondiale negli Stati Uniti. Parliamo dell’evento calcistico più grande a livello planetario, del secondo a livello sportivo in assoluto dopo le Olimpiadi. E stiamo facendo sul serio. Tutti, dalla lega, ai proprietari, a chi opera nell’ambito tecnico-sportivo: tutti si stanno impegnando perché gli USA si facciano trovare pronti”

Tra i meccanismi di sostenibilità, anche il salary cap. Averlo è un bene o limita la competitività della MLS?
“È una bella domanda che merita una risposta magari più contestualizzata: Il salary cap permette di lavorare in maniera strutturata, e ti obbliga di concentrarti attentamente sull’identificazione e soprattutto la valorizzazione dei calciatori. Crea un mercato meno speculativo e ti spinge a fare investimenti mirati: si parla pur sempre di un contesto finanziario, ma ti obbliga a fare scelte in base al valore sportivo dei calciatori, alla loro crescita e valorizzazione. Non favorisce una prospettiva prettamente transazionale o speculazioni di cartellini, evita un calciomercato molto mosso. E puntando sui giovani i risultati sono gente come Reynolds, Reyna o Davies. Ma se mi consente guardo anche nella mia rosa: Marcos Lopez o Cade Cowell, lo stesso Jackson. Sono giocatori che rappresentano un valore futuro nel quale noi investiamo e del quale poi beneficiamo”.

Di salary cap si sta parlando anche dalle nostre parti. Lei conosce bene il calcio europeo e italiano nello specifico: pensa che sia importabile o che sia troppo lontano dalla nostra mentalità?
“Io ho avuto la fortuna di lavorare in Serie A con mentori di grande spessore umano e professionale e posso parlare per quel che ho vissuto a Roma. Detto questo, guardi quanti prestiti ci sono: certe squadre arrivano a 20-30 giocatori ceduti con questa formula. Vuol dire avere un’intera rosa che gioca in altre squadre. Non punto il dito, è una constatazione. Poi ci sono società molto capaci, che riescono a capitalizzare il valore dei propri giovani.  Ma penso che il motivo per cui le leghe europee stiano considerando delle riforme è che debbano rivedere, in generale, i modelli del passato. Non può essere una società a deciderlo, ma ci deve essere un allineamento tra chi regola e guida la competizione in maniera più sostenibile e le squadre che vi partecipano. In MLS, come le ho spiegato, siamo tutti azionisti del nostro calcio: è una cosa che ci evita disparità, divergenze di interessi e mancanze di allineamento per quello che riguarda lo sviluppo del prodotto calcio in maniera uniforme. L’obiettivo è un prodotto che sia riconoscibile, più unito e che non allontana il tifoso ma lo rende più partecipe: la Serie A sposava questo principio negli anni ‘80 e ‘90, quando era il brand calcistico più attraente al mondo anche dal punto di vista sociale. L’Italia era all’avanguardia non perché comprava e vendeva bene i giocatori, ma perché curava molto la ricerca e lo sviluppo nella formazione, la programmazione e la valorizzazione tecnica”.

Agnelli dice che i giovani non sono più interessati al calcio. È vero anche negli USA?
“Quello che noi stiamo notando, almeno negli Stati Uniti, è che si è creato un ponte tra i giovani e il calcio professionale grazie a un collegamento a livello sociale. Questa generazione è molto diversa rispetto ai nati nel 1990 o 1980, e la MLS ha cercato di interagire con questi ragazzi, che vogliono essere coinvolti. Dobbiamo cercare di ascoltare questa generazione, e credo che il dottor Agnelli evidenzi la necessità di capire questo. Bisogna ascoltare i ragazzi, che alle volte si sentono alienati o poco rappresentati. Serve un messaggio di maggiore inclusività, e il calcio, senza dubbio, può darlo”.

Ultima domanda sul vostro club. Quando cercate un calciatore, privilegiate la ricerca a livello nazionale o anche all’estero?
“Per tutto quello che ci siamo detti, penso sia chiaro che quando facciamo scouting dobbiamo essere attenti e mirati, cercare valore tecnico. Per questo, non ci concentriamo soltanto a livello locale e nazionale, ma setacciamo anche una ventina di Paesi che esportano talento di valore. In Europa, ma anche in Sud America, per esempio in Argentina o in Brasile. Abbiamo sempre un occhio puntato anche verso l’Italia o la Francia, ma il nostro obiettivo è chiaro: dovendo essere molto attenti nella selezione, dobbiamo poter mettere in piedi un sistema di reclutamento che ci permette di completare una rosa che tenga insieme un sedicenne come Cowell e un trentottenne come Wondolowski. L’importante è che siano calciatori di valore. E la nazionalità non importa: ne abbiamo 15 diverse. La cosa più importante è avere un metodo e un’identità di gioco che attrae e promuove giocatori ai fini di far rendere il tifoso partecipe del nostro calcio”.

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