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Massimo Sandrelli: la prima volta che vidi Hamrin

Massimo Sandrelli: la prima volta che vidi HamrinTUTTO mercato WEB
© foto di Federico De Luca
mercoledì 7 febbraio 2024, 07:50Altre Notizie
di Redazione TMW

La prima volta lo vidi in bianco e nero.
Erano i mondiali del 1958.
In casa la tv fu un “lusso” che ci concedemmo solo due anni dopo, per le Olimpiadi romane. Così mio padre mi portò con sé al bar per vedere la finale Svezia-Brasile.
All’epoca non c’erano mica i maxischermi
Tra quelle figurine lassù in alto me ne indicò una e mi disse: lui è Kurt Hamrin, verrà alla Fiorentina. Per me, ancora bambino, fu una curiosità; loro, i più grandi, avevano invece accolto la notizia con un certo scetticismo. La maglia viola numero sette era stata Julio Botelho Julinho, che poi se ne era andato: chi poteva sostituire il mitico Giulio? Hamrin era stato scelto dalla Juve ma la sua “caviglia di vetro” ne aveva messo in dubbio il futuro così lo avevano parcheggiato a Padova. Nereo Rocco ne sapeva una più del diavolo. Grazie all’ingegno di un suo collaboratore.
Meno di un ortopedico e forse qualcosa in più di un meccanico, questi approntò un plantare primordiale per proteggerne il piede. “Giocavo tra un dolore e l’altro - mi confessò Kurt - ma alla fine la caviglia tornò stabile”.
A Padova fece 20 venti gol ma la Juventus aveva già Sivori e Charles e non poteva tesserare un terzo straniero. Kurt Hamrin a Firenze fu subito ribattezzato “Arimme”, quel gioco scandinavo di consonanti poco si addice al nostro lessico. Beppe Pegolotti, uno delle penne più nobili della Nazione, gli affibbiò un nomignolo che sarebbe diventato storia: Uccellino.

Calzettoni arrotolati, andatura caracollante, rapido, scattante, essenziale, era sempre pronto a “beccare” la palla.
A Coverciano sono anni che cercano di spiegare come si fa gol.
Non credo che ci sia una verità.
Vero e’ che ci sono giocatori che nascono con il fiuto del segugio da tartufi. “Odorano” le traiettorie del pallone, capiscono prima degli altri dove e’ meglio stare e quando capita un tocco e via. I suoi numeri sono impressionanti: quasi un gol ogni due partite.
E le sue imprese accompagnarono, noi ragazzi degli anni cinquanta, dall’infanzia fino all’esame di maturità.
Quando mi chiedono chi sia stato il mio idolo, senza far torto a nessuno, non posso che pensare a lui. Pochi titoli in viola, due coppe Italia e una Coppa delle Coppe ma più di 200 gol. Alla vigilia del secondo scudetto fu ceduto al Milan, per noi fu un trauma.
Rocco, sempre lui, lo accolse nel suo gruppo di veterani e in rossonero vinse tutto il resto dallo scudetto alla Coppa dei Campioni. Due anni a Napoli, poi in Svezia ma alla fine decise che Firenze era casa sua. E da allora per tutti fu semplicemente Kurt. Si guadagnava rispetto con il rispetto. Viveva in punta di piedi, così come quando in campo sembrava danzare sulle punte. Simpatico, aveva imparato l’ironia di queste parti. La prima volta che lo intervistai mi “tremavano i ginocchi”.
Come si fa ad intervistare la propria passione?
E lui mi guardava malizioso, come quando a tennis insieme padellavo qualche voleè imbarazzante: “voi giornalisti…”.
Ora Uccellino se n’è volato verso il Paradiso del Pallone.

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