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Gli aneddoti con Beckham, Xavi e non solo. Gandini si racconta: "Ibrahim Ba al Milan..."

Gli aneddoti con Beckham, Xavi e non solo. Gandini si racconta: "Ibrahim Ba al Milan..."TUTTO mercato WEB
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
giovedì 29 febbraio 2024, 14:30Serie A
di Tommaso Bonan

Lunga intervista a Radio TV Serie A per Umberto Gandini, attuale presidente della Lega Basket Serie A, e storico dirigente del Milan e della Roma: "I 23 anni in rossonero? Sono anni che rappresentano una buonissima parte della mia vita, una vita straordinaria per tante cose. Dal punto di vista sportivo è stata una cavalcata ineguagliabile, pensare oggi che una squadra possa fare come quel Milan a livello internazionale è molto difficile, sono cambiati tantissimi riferimenti del mondo, in generale. È stata una crescita personale e professionale, una vera famiglia, perché ho passato praticamente una metà di vita col Milan. Momento più indimenticabile? È facile rispondere con la prima finale di Champions vinta, Milan-Barcellona ad Atene del 1994. La mia esperienza era iniziata con la sconfitta subita a Monaco di Baviera contro l'Olympique Marsiglia. Memorabile anche la vittoria nel 2007, sempre ad Atene, una città ricorrente nella mia storia. Due finali, due vittorie, una città santa per i milanisti".

Aneddoti e trattative con Beckham, Xavi, Zielinski e Dzeko
"In 23 anni tante cose sono cambiate, il mio ruolo si è evoluto costantemente, sono stato coinvolto in più dinamiche. Nelle trattative di mercato il mio ruolo era perlopiù di back office, di collegamento con uffici legali, procuratori e squadre. La trattativa più "personale", per una serie di motivi, è stata quella che ha portato David Beckham al Milan. Fu un lungo corteggiamento, molto sottotraccia sia quando lui andò al Real Madrid dal Manchester United sia quando poi lui lasciò Madrid per andare ai Galaxy, fino a quando riuscimmo a portarlo a Milano. Lì ho lavorato tanto per via delle relazioni che già avevo con i dirigenti di Manchester United e LA Galaxy. Nel 2013, quando ha finito la sua parentesi negli Stati Uniti, David voleva tornare al Milan: in quel gennaio ne discutemmo in società, ma Galliani disse no e Beckham andò a Parigi. Non era una questione di soldi, non eravamo sicuri che potesse essere ancora determinante per la squadra. Dal punto di vista romantico, e di marchio, sarebbe stato perfetto chiudere la carriera al Milan; invece, abbiamo consentito a un altro club, il PSG, di avere il beneficio di utilizzare David e di averlo come brand ambassador. Che persona era David Beckham? Semplice, gli ha reso tanta giustizia anche il documentario su Netflix, dove lo si può vedere in una maniera diversa. Molta gente oggi dice di averlo riscoperto anche come giocatore: ci siamo dimenticati quanto era bravo. Una trattativa sfumata? Penso a Xavi dal Barcellona. Era il 1999: io e Galliani eravamo a vedere la finale a Barcellona, tra Bayern Monaco e Manchester United. La trattativa era stata portata avanti da Ernesto Bronzetti e Pedro de Felipe: Xavi era a fine contratto e il padre stava cercando un'alternativa. L'idea era di prenderlo a fine contratto e portarlo a Milano a 19 anni. Era tutto fatto, poi lui ha raccontato di recente che la madre si oppose: io penso che sia stato utilizzato il contratto firmato con noi per avere il rinnovo dal Barcellona. Un'altra trattativa ben avviata fu quella per Piotr Zielinski, quando era all'Udinese. Alla fine, non ci si mise d'accordo sul valore e il giocatore andò al Napoli. Anche Edin Dzeko dal Wolfsburg, che Galliani provò a prendere ma poi andò al Manchester City; Paul Pogba dallo United a parametro zero, offerto da Mino Raiola a tutte le grandi squadre, ma Galliani non se la sentì di investire tanto su un giocatore così giovane così come per Marco Verratti dal Pescara. Trattativa più difficile? Mi vengono in mente trattative per giocatori a fine contratto: Luiz Adriano dallo Shakhtar, una trattativa quasi infinita così come quella per Keisuke Honda. È stato difficile anche portare Ibrahim Ba al Milan: competere con tante squadre inglesi era complesso. Grandi soddisfazioni, invece, nel portare giocatori a prezzi accessibili, come Zlatan Ibrahimovic dal Barcellona".

Su Silvio Berlusconi
"È stata una persona di grandissima influenza, un Presidente sopra qualunque altro. Personalmente ho cominciato a lavorare in televisione nel 1988, ho conosciuto prima il Berlusconi imprenditore televisivo. Una volta passato anche al Milan ero molto intermediato da Adriano Galliani, incontravo Berlusconi solo in momenti ufficiali. Aneddoti? Sono molto personali, non divulgabili in questo modo. Tutto quello che si è detto su di lui è vero, personalità, conoscenza e voglia di incidere. Ricordo un episodio con Carlo Ancelotti: il Presidente riteneva che sbagliassimo tutto sui calci d'angolo, voleva che la squadra partisse da fuori area per confondere i difensori avversari. Al momento del calcio, tutti dentro in area, così alla peggio avremmo potuto guadagnare un rigore: credo che Carlo abbia cercato di non provare mai questo schema, e di fronte a Silvio disse: "abbiamo provato in allenamento, ma non funziona". C'era anche il tema di Kakà punta o non punta, il Dottore lo vedeva piazzato da trequartista. Le storie famose su di lui sono tante, alcune romanzate, l'unica cosa certa era la grande passione per il Milan. Calcio e politica mischiati? L'intreccio per me è cominciato da subito, il giorno della finale ad Atene del 1994 era lo stesso in cui il governo Berlusconi riceveva la fiducia in Parlamento. La discesa in campo l'ho vissuta fino in fondo, piano piano è cambiato il modo di gestire la relazione col Dottore. Aveva tanti impegni istituzionali, ricordo quando venne a vedere un Borussia Dortmund-Milan e restò la notte in Germania con Gerhard Schröder, mentre noi volammo in Qatar per un'amichevole. Era diverso. Ci sono stati anche dei momenti in cui si diceva che qualche risultato sportivo potesse essere stato dettato da qualche opposizione politica che si materializzava attraverso la simpatia di dirigenti o arbitri, ma francamente la cosa più bella in assoluto era che in tutto il mondo Milan era diventato sinonimo di eccellenza, italianità e successo".

Sui migliori giocatori e allenatori del "suo" Milan
"Marco Van Basten è in assoluto il giocatore più amato, quello che indubbiamente mi ha lasciato più disperazione per aver interrotto una carriera che sembrava inarrestabile. Io Marco l'ho conosciuto alla fine della sua avventura al Milan: sono arrivato nel 1993, quando è iniziato il suo calvario. L'ho avuto in squadra nel '93 e nel '94, poi l'ho visto nel momento del ritiro, in quella terribile passeggiata durante il Trofeo Berlusconi. Lo sento ancora oggi, mi piace definirlo amico.

Ronaldo il Fenomeno l'ho vissuto da avversario, sia all'Inter sia al Real Madrid. Quando venne al Milan ho letto che Capello definì la trattativa: "una cosa buona per il Real Madrid, ma non per il Milan". Ancelotti, invece, ricordo che in quel periodo diceva: "Da quando è arrivato lui, fare la formazione è facilissimo: Ronaldo e poi altri 10". Il Fenomeno non si preoccupava delle altre squadre, era straordinario. Ricordo un giorno, giocavamo contro il Siena e Galliani gli chiese: "Domani giochiamo a Siena, tu sai chi sono i loro difensori, vero?", lui rispose, riflettendoci: "No, ma loro sanno chi sono io" e il giorno dopo fece due gol. Un personaggio straordinario.

Ronaldinho ha fatto tantissimo al Milan, è stato un giocatore straordinario con grande allegria e gioia, un inarrivabile pallone d'oro che ha avuto una vita abbastanza intensa. Un giorno arrivò a Milanello per un allenamento pomeridiano e si addormentò in una vasca del ghiaccio, talmente era stanco da una festa fatta di divertimenti in casa sua.

Paolo Maldini è straordinario, rappresenta il Milan. Io sono arrivato al Milan con Franco Baresi capitano, c'erano Costacurta, Tassotti, Donadoni, Massaro, uno zoccolo duro di italiani. Quello che poi Paolo ha rappresentato anche per la storia della sua famiglia, la sua maglia ritirata... è stato tantissimo. Abbiamo vissuto molte partite insieme, ero con lui il giorno della sua uscita dal mondo del calcio a San Siro, purtroppo non bella da ricordare per i fischi di una parte della Curva Sud. Tante cose rimangono nella memoria per un motivo che non merita, ci sono tante motivazioni. Paolo è rimasto fuori, ha cercato di costruire una sua professionalità. Com'è possibile che sia andato via dal Milan? Non ho più vissuto dall'interno certe dinamiche, c'è stato un periodo in cui Paolo aveva avuto delle opportunità per tornare e aveva giudicato non fossero per lui idonee. Alla fine, decidono le proprietà: si può discutere sul metodo e sul modo, alquanto diretto, ma le dinamiche dietro un rapporto professionale sono difficili da giudicare.

Clarence Seedorf? Un altro tra i giocatori nell'Olimpo, persona intelligente e curiosa, attenta a tanti aspetti della vita, non solo calcistica. Poliedrico, giocatore straordinario: quando aveva la partita potevamo vincere con chiunque, quando mal sopportava il suo ruolo di mezzala era un disastro: era il giocatore che più impattava sulla squadra.

Andriy Shevchenko è arrivato "cerbiatto" nel 1999, l'ho conosciuto appena arrivato. Facevo il team manager, l'ho conosciuto bene e ci siamo trovati tantissimo. Il Milan l'ha seguito per più di un anno a Kiev, lo guardava tutti i giorni in allenamento. Ci sono state tante cose che ci hanno avvicinato, come la passione per il golf. Il giorno in cui si chiuse il suo trasferimento al Chelsea, eravamo nella sede di Via Turati, io avevo l'ufficio di fronte a quello di Galliani e Andriy faceva avanti e indietro tra il mio e il suo, spiegandomi perché voleva e doveva andare via, mentre Adriano cercava di convincerlo a firmare un nuovo contratto. Alla fine, Galliani parlò con Abramovich e Shevchenko andò al Chelsea.

Carlo Ancelotti è l'allenatore con cui ho lavorato meglio, ho un'amicizia con lui anche per una questione di età. Al Milan è stato un tripudio, prendere lui è stato un po' come ridare il Milan ai milanisti dopo Fatih Terim, persona eccezionale che però non aveva funzionato per una serie di motivi nella casa rossonera. Carlo rappresentò la soluzione di tutti i problemi: la storia gli ha dato ragione. Le coppe, tre finali in cinque anni: uno dei più grandi allenatori al mondo.

Con Fabio Capello ho lavorato parecchio prima di andare al Milan, quando lui era responsabile della polisportiva Mediolanum che Berlusconi aveva voluto per il Milan. Io arrivavo con un'esperienza da giocatore e dirigente di hockey sul ghiaccio, ho lavorato con lui da manager aiutandolo a prendere allenatori e giocatori di hockey. Nel gennaio '93 ho trovato Fabio da allenatore del Milan e lì è cominciata una relazione che dura ancora oggi.

Andrea Pirlo arrivava a grande sorpresa dall'Inter, persona molto divertente, anima dietro tanti scherzi che si facevano in spogliatoio con Gattuso e Ambrosini. Giocatore di una classe elevata, scoperto da Carlo in un ruolo non suo - all'epoca - e che gli ha prolungato la carriera. Sarebbe rimasto al Milan anche per molto meno, ma si reputò che la sua parabola fosse ormai discendente; invece, alla Juventus ha ritrovato poi una nuova giovinezza.

George Weah? Nacque una simpatia, arrivò dal Monaco e pochi parlavano inglese e francese. Suo figlio giocava nelle giovanili col mio, si creò un bel rapporto. Abbiamo vissuto tanti episodi insieme, è anche diventato Presidente della Repubblica. Chiese aiuto a me e al Milan e noi tramite Opel gli facevamo avere dei SUV: ci spiegò che aveva bisogno di mezzi per girare nei villaggi, perché si votava per iscrizione e bisognava andare a convincere le persone. Perse la prima volta, poi divenne Presidente».

La top 11 del Milan di Gandini
"Ho fatto dei sacrifici, ma la formazione sarebbe questa: Dida; Cafu, Baresi, Costacurta, Maldini; Seedorf, Pirlo, Gattuso; Kakà; Shevchenko, Inzaghi. Potrei metterne tanti altri, come Crespo, Ibrahimović, Van Basten, Boban, Donadoni, Albertini, Nesta...

La formazione che mi piacque di più in assoluto rimane però quella della finale persa a Istanbul nel 2005, che per me è stata la più forte. Chi mi ha divertito di più? Kakà, per quello che ha rappresentato, per quello che ha fatto e per come è cresciuto, anche per come poi è arrivato al pallone d'oro. Ricky è stato quello che mi ha colpito di più in assoluto, in campo e per la sua storia. Io sapevo della sua esistenza nel San Paolo da un caro amico che ci faceva da consulente, aveva una visione molto forte sul calcio brasiliano e dava a Braida delle informazioni. Leonardo lasciò il Milan per andare a giocare nel San Paolo, gli chiesi di tenere d'occhio Kakà, per capire se potesse essere da Milan. Si rivelò essere da Milan, fu un'operazione straordinaria fatta da Braida, che continuo a pensare sia tuttora uno dei più grandi scopritori di talenti».

Umberto Gandini ha mai ricevuto offerte per andare via?
"Un'offerta sì, precedente alla vera dimensione di dirigente, quando mi occupavo di diritti televisivi. Avevo ricevuto un'offerta per andare a una rete concorrente: ero impaziente e volevo di più, non avevo capito dove ero arrivato. Lì il signor Galliani mi convinse che sarebbe stato meglio per me restare e ancora oggi lo ringrazio. Trattative vere e proprie forse una volta sola, ero determinato a voler fare il passo: al Milan ero arrivato al soffitto, non potevo pensare di crescere ulteriormente. Ho avuto una chiacchierata con il Liverpool per qualche mese e sono stato vicino al Toronto quando ci giocò Giovinco. Adriano Galliani, non so come, scoprì che sarei andato in viaggio in Canada, mi chiese perché e mi disse: "Io ci tengo che lei rimanga qui" e questo alla fine risolveva sempre tutto. Galliani e Braida? Coppia ancora oggi solidissima, due persone che hanno scritto la storia del calcio italiano, europeo e mondiale con il Presidente Berlusconi».

Chi è oggi il miglior dirigente italiano?
"Escluso Adriano Galliani, che reputo ancora il migliore, oggi forse Giuseppe Marotta può fregiarsi di questo titolo. Il club che lavora meglio? Di conseguenza l'Inter, a oggi è più avanti rispetto ad altri. Forse il fatto di non aver affrontato seri problemi nella gestione aziendale negli ultimi anni ha dato un vantaggio competitivo all'Inter".

Sul Milan di oggi
Penso che sia una realtà ancora in divenire da un certo punto di vista, c'è stato un cambio di proprietà recente e credo che ci sia un'attenzione molto più elevata rispetto ai nostri tempi di quello che è il marchio. Nell'ultimo anno secondo me c'è un po' troppa attenzione sul fuori campo che sul campo vero e proprio. Stefano Pioli? Non l'ho conosciuto come allenatore di una mia squadra, ma come giocatore e allenatore contro cui ho giocato. L'ho incontrato la sera in cui è stato ingaggiato dal Milan, lui e Boban erano nello stesso hotel. È un eccellente professionista, ha vinto uno scudetto, cosa non semplice che viene data per scontata. Credo che abbia un ruolo non semplice, è difficile interloquire con una proprietà che non ha proprio i fondamentali di gestione di una squadra. Una squadra che ha una forza lavoro fatta da milionari, da gente che diventa famosa presto e che guadagna tanto, che è molto diversa dalla gestione di risorse umane di qualsiasi azienda. Avrei fatto la differenza in questo Milan? No, però ho pensato di poter tornare per fare qualcosa. Contattato da possibili acquirenti del Milan? Sì, ero stato sondato prima dell'operazione Elliot, quando sembrava che Rocco Commisso comprasse il Milan da Yonghong Li. Io ero in uscita dalla Roma, era l'estate del 2018. Tornerei al Milan? Se me lo chiedessero, ci penserei seriamente. È stata la mia casa, una famiglia».

Sulla Roma, Luciano Spalletti e Daniele De Rossi
Due anni intensi, molto belli e formanti, perché avere un rapporto diretto con l'azionista - che rappresentava un gruppo di azionisti - è stata una scuola, un'esperienza che non conoscevo. La Roma è una società con un rapporto straordinario con la sua tifoseria, estremamente legata alla città. Due anni da amministratore delegato a Roma, con una proprietà americana, è stata una grande esperienza. Abbiamo fatto bene, ricordo le semifinali di Champions League, ho lavorato con Spalletti, Di Francesco, Monchi...

Differenza tra Roma e Milan? Il legame con la città, il rapporto fortissimo che c'è, quasi un'identificazione simile a quello che succede a Barcellona, dove il club è più che una squadra, quasi una nazionale. È stato più difficile lavorare a Roma rispetto che a Milano? Per la mia esperienza potrei dirti di sì, per tutto quello che gravita attorno a una città come Roma, capitale e città del governo in cui c'è tantissima influenza: da quel punto di vista è più difficile. Mi piace ricordare il rapporto con Luciano Spalletti: era l'ultimo anno di contratto, non ero il suo riferimento diretto e me lo disse in totale trasparenza. Io gli dissi: "Quando vuole io ci sono, di qualsiasi cosa abbia bisogno". Ogni tanto ci scrivevamo: io insistevo per fargli vestire la divisa ufficiale al posto della tuta, perché penso che un club come la Roma dovesse essere anche dal punto di vista stilistico all'altezza della situazione e lui, senza dirmi che lo avrebbe fatto, lo fece. Si lamentava con me di cose che erano fuori dal mio "controllo", come i campi di Trigoria che non andavano bene. Ci sono state tante cose, anche un rapporto con personaggi di alto livello: ho vissuto l'ultimo anno di Francesco Totti in una serata struggente, ho pianto anch'io per quello che rappresentava. Daniele De Rossi? Immaginavo sarebbe diventato allenatore, suo padre Alberto è stato uno degli allenatori più importanti del settore giovanile della Roma. Lui rappresenta la romanità, così come Francesco, ma tra i due Daniele aveva più attitudine per il campo rispetto a Totti. De Rossi divenne il "mio" capitano, il rapporto divenne più stretto".

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