Morata: "A Como mi sento a casa. Zero gol? Non penso solo a segnare"

“Sono davvero felice, orgoglioso. Mi sento a casa”. Alvaro Morata racconta così la sua avventura al Como, nel corso di un’intervista rilasciata ai canali ufficiali del club lombardo: “Da quando ho firmato con il Como, tutti mi hanno accolto al meglio, con un messaggio o con un gesto. È come far parte di una grande famiglia e sono fiero di esserci”.
L’attaccante, ex di Juventus e Milan, è ancora a secco in questo campionato, ma non sembra un problema: “Non penso soltanto a segnare. Voglio lavorare con la squadra per raggiungere obiettivi comuni. Non sono il tipo che immagina traguardi da solo, perché il calcio è uno sport di gruppo. Voglio condividere gioie e fatiche con i miei compagni. Non vedo l’ora di indossare questa bellissima maglia e vivere insieme battaglie e momenti importanti”.
Con Cesc Fabregas, Morata è allenato da un suo ex compagno di squadra. Un profilo molto lontano da altri grandi tecnici avuti in carriera: “Ho lavorato con tanti, tra i migliori al mondo, e ognuno mi ha lasciato qualcosa. Simeone mi ha dato motivazione, Conte mi ha insegnato la tattica. Sono contento anche perché il nostro allenatore qui ha collaborato con i più grandi. Ha un carattere forte e spero che questa stagione possa regalarci soddisfazioni”.
Nella chiacchierata, lo spagnolo ha raccontato come ha scelto di accettare la corte del Como: “Quando ho ricevuto la chiamata ho detto subito che era un progetto incredibile. Lo scorso anno ci ho giocato contro e abbiamo sofferto tanto. Ho visto con i miei occhi che il Como sta diventando un grande club, con ambizioni e strutture importanti. È un progetto serio, con un grande allenatore: per me una grande opportunità. Non ho dovuto pensarci troppo. Cesc è una leggenda, con enorme esperienza, e ho seguito sia la testa sia il cuore”.
Tante le tappe della sua carriera: “Sono stato fortunato, tutte le mie destinazioni mi hanno dato molto. A Londra ho imparato a essere forte come uomo, e questa è la cosa più importante della vita: il calcio non è tutto. Ogni Paese mi ha insegnato qualcosa, anche a livello culturale. I miei genitori mi hanno dato un’educazione straordinaria. Mio padre, quando ho iniziato a giocare accanto ai grandi campioni, mi disse di osservare, analizzare e tacere. Solo lavorare. La parte mentale conta tanto: nel calcio c’è pressione, e nelle accademie non insegnano a gestirla. Non è follia chiedere aiuto a uno specialista: se andiamo in palestra per il corpo, possiamo farlo anche per la mente”.
Difficile scegliere il trofeo più prezioso: “La medaglia più importante è sempre l’ultima, perché non sai mai se sarà l’ultima volta. Certo, l’Europeo o la Champions hanno un valore speciale, ma anche la Coppa di Turchia mi ha reso l’uomo più felice del mondo: ogni titolo richiede sacrificio”.
Quanto al numero di maglia: “Il sette è speciale. Devo ringraziare Lucas (Da Cunha, ndr) perché lo voleva anche lui, ma me lo ha lasciato. Lo rispetto per questo. È il numero che indosso con la Spagna e che amo da bambino. Darò il duecento per cento per rendere orgogliosi squadra e tifosi”.
