Perugia, Formisano: "Vi racconto la mia metodologia"

Da quest’estate tecnico della Primavera del Perugia, con Alessandro Formisano ci siamo addentrati nei meandri della metodologia che gli ha permesso di volare nel professionismo a 24 anni. Partito nei dilettanti, il mister ha fatto moltissima gavetta, intraprendendo una strada unica nel suo genere ma che sta ripagando.
Raccontaci del tuo approccio al mondo del calcio.
“Per quattro anni ho allenato in varie società dilettantistiche fino al decisivo approdo al Caravaggio Sporting Village, un centro sportivo all’avanguardia di Napoli che in un secondo momento ho scoperto essere gestito dalla famiglia Vigorito. Lì c’è stata la prima svolta, avendo la fortuna di entrare in un contesto importante nel quale ho avuto modo di crescere e di sviluppare le mie idee. Nel 2014 mi hanno proposto di proseguire nella Casertana, vivendo così la mia prima esperienza nel professionismo”.
Quali differenze hai riscontrato tra dilettantismo e professionismo?
“Mi sono sempre ritenuto un allenatore all’avanguardia. Ciò non significa che sia meglio o peggio di altri, ma sicuramente diverso. Ho creduto in un approccio interdisciplinare, anche grazie ai miei studi (lettere e filosofia, giurisprudenza, storia, ndr), tanto che la mia strada sarebbe dovuta essere un’altra. A calcio ci avevo giocato da ragazzo, nulla di più, ma mi sono reso conto che la mia formazione si sposava con lo sport. Ho preso parte a moltissimi corsi, ma la metodologia che ho sviluppato è diversa rispetto a ciò che mi è stato propinato. La prima differenza sostanziale tra dilettantismo e professionismo che ho constatato risiede nel pensiero riguardo quest’ultimo. Nei prof i giocatori sono già preconfezionati, è come un’industria che deve produrre risultati in un tempo finito; devi incidere e farlo in fretta. Per questo si respira un’aria a volte pesante. Personalmente non ho mai sentito il peso e mi sono sempre preso il mio tempo, anche grazie alla fortuna di poter allenare in contesti in cui veramente il risultato veniva posto in secondo piano”.
Poi il passaggio al Benevento, un altro passo avanti fondamentale per la tua carriera.
“È stato uno scatto cruciale, se non altro perché nel frattempo il Benevento era salito in Serie B, per cui la società iniziava a prendere piede in modo importante. Sono diventato responsabile tecnico delle categorie dall’Under 14 in giù. In quel periodo è iniziato a nascere il Formisano metodologo, quello che doveva costruire dei percorsi di apprendimento che toccassero tutte le fasce d’età, oltre a condividere le idee con gli altri componenti dello staff ed in parte formarli. Il calciatore è sempre al centro di tutto. Il formatore, e non allenatore, è esterno alla dinamica di gioco, non determina, bensì crea contesti nei quali è il calciatore a determinare. Questa è la massima da cui si sviluppa la mia metodologia. A Benevento mi sono ritrovato poi davanti ad un bivio, fare l’allenatore o intraprendere la strada di responsabile tecnico del vivaio, ho sempre sentito la scintilla di sedermi in panchina, così ho optato per la prima via. Fu un periodo pazzesco in cui riuscimmo ad ottenere risultati incredibili, nel 2018/2019 con l’Under 16 abbiamo battuto ogni record. Sono salito alla ribalta per quello, ma ciò che mi interessava era sempre e solo la crescita dei ragazzi. Direi che, considerando gli anni successivi ed i vari calciatori ceduti, è stato fatto un bel lavoro”.
Essendo di base un metodologo, oltre che un allenatore, hai avuto la possibilità di entrare in contatto con molte realtà, come la Blue Devils di Luigi Santoro. Cosa ci dici a questo proposito?
“Il presidente mi segnalò un ragazzo da portare al Benevento, rimase colpito dal modo in cui lavoravo con i ragazzi, così mi chiese di aiutarlo per creare nella sua società un modello riconoscibile. Non ho fatto altro che condividere le mie idee, la Blue Devils è il riflesso di quello che sono io e la mia metodologia. Non esistono lavori a secco, destrutturati, analitici; c’è il giocatore che comprende il gioco e prende determinate scelte, e questo è un unicuum. Sono contento che Luigi Santoro abbia avuto il coraggio di investire nelle idee, nella qualità più che nella quantità. I numeri parlano chiaro, in termini di crescita dei ragazzi e di cessioni al professionismo”.
In estate hai firmato con il Perugia, un’avventura stimolante in un periodo difficilissimo
“Purtroppo c’è stata una brusca ed inaspettata rottura con il Benevento, avevo bisogno di altro, così sono volato in Umbria. Decisiva è stata la chiamata del responsabile del settore giovanile Jacopo Giugliarelli, nelle sue parole ho rivisto me stesso, mi ha come folgorato. Mi hanno prospettato un progetto importante, con continuità nel tempo e possibilità di proseguire la carriera. Uno step di crescita notevole c’è stato subito con l’affidamento della guida tecnica della Primavera 3”.
Come hai proseguito il lavoro nell’ultimo periodo tra lockdown, restrizioni e campionati fermi?
“Essendo professionisti fortunatamente non abbiamo avuto il vincolo degli allenamenti individuali, per cui l’unico, ma comunque grande, deficit è stata la mancanza di competizione. Abbiamo avviato studi specifici e scientifici sull’apprendimento, capire come stimolare i giovani calciatori attraverso la competizione interna. È stato anche un modo per verificare noi allenatori e formatori. Nella nostra metodologia non esiste programmazione a medio-lungo termine, l’allenamento del giorno dopo si basa su quello di ventiquattro ore prima. Non si parte da un punto A per arrivare ad un punto C, si mescola tutto; nel calcio le circostanze cambiano sempre e continuamente, non è uno sport lineare”.
Vuoi aggiungere qualcosa sulla metodologia?
“Ci tengo a far passare il messaggio che non sono stati i risultati ottenuti a mettermi nelle condizioni di allenare una Primavera a 29 anni, piuttosto la diversità della proposta. Bisogna mettere l’evoluzione del calciatore nel processo di apprendimento al centro di tutto. Dobbiamo azzerare i paradigmi, solo così migliorerà il calcio italiano. Bisogna consegnare alle prime squadre i giovani perduti, quella che una volta crescevano per strada, giocavano senza obblighi. Nessuno diceva loro cosa fare e come. Dobbiamo ripartire da lì, creare contesti in cui far esprimere i ragazzi, non impartire lezioni”.
